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Angels in America

Regia di Mike Nichols vedi scheda film

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La recensione su Angels in America

di spopola
10 stelle

Non utilizzo parole mie questa volta per osannare il fim, preferisco affidarmi a un articolo a firma John Peter  pubblicato su “The Sunday Times” il 28 novembre 1993 che in effetti parlava dele testo teatrale non della trasposizione cinematografica, ma che mi sembra così pertinente ed esaustivo da poter essere utilizzato anche per elogiare la potenza espressiva della realizzazione di un Nichols veramente in stato di grazia (coadiuvato da un formidabile parterre di attori). Per chi volesse comunque vivere in diretta la straordinaria emozione di verificare sulla scena l'empatica capacità coinvolgente della scrittura, è ancora in circolazione (imperdibile) una efficace  messa in scena (divisa ovviamente in due parti così come lo è il testo, impossibile da realizzare tutto intero in una sola serata) a firma De Capitani/Bruni. Davvero indimenticabile... : 
UNA DIVINA COMMEDIA  PER UN’ETÁ LAICA E TORMENTATA
Ci sono angeli in America? E se ci sono, qual è il loro messaggio? Il lavoro in due parti di Tony Kushner è una Divina Commedia per un’età laica e tormentata; un terremoto nel teatro, sconvolgente, terribile e magnifico. Come dicono i cauti annunciatori televisivi quando mettono in guardia il pubblico, qui troverete qualcosa che vi potrebbe disturbare, ma non si tratta semplicisticamente, come forse vi aspettate, delle scene d’amore omosessuale. No, io ritengo che il male esplicito, il tradimento esplicito, la crudeltà esplicita siano in ogni scena tanto disturbanti quanto il sesso esplicito, omo o etero che sia. La visione di un organo sessuale maschile in palcoscenico (o in televisione o finanche sul grande schermo – n.d.t.) può risultare sconcertante, ma non più della rivelazione di cosa possa pensare o sentire l’uomo quando lo sta usando. Kushner è il cronista di un’età che sta esaurendo i suoi valori d’urto così come i suoi tabù. “Angels in America” è una pièce sull’Aids? No, non più di quanto “Spettri” sia una pièce sulla sifilide. Per Kushner l’Aids è un simbolo – ma non un simbolo in senso remoto, letterario o etereo. Per lui l’Aids è reale: un cancro, una peste, qualcosa di catastrofico proprio perché sarebbe evitabile. La peste era inumana perché incomprensibile: per questo si pensava fosse un segno di Dio. L’Aids è umano; precisamente, è il risultato di cose che la gente fa o evita di fare. Parlare di Aids come di una malattia omosessuale, come fanno ancora alcuni, significa non capire il nocciolo della questione. L’Aids è nella circolazione sanguigna della società in più di un senso. I recenti scandali medici sulle forniture di sangue contaminato sollevano quesiti sull’etica e la responsabilità dell’industria, del commercio, della politica e della medicina. L’Aids è un dato di fatto, una questione di vita o di morte. Perciò voi personalmente che cosa fate in proposito? Lo ignorate? Lo combattete? Lo usate per denaro? Ibsen avrebbe certamente  colto questo terribile dilemma morale. Il virus dell’HIV nel lavoro di Kushner ha la stessa  forza della sifilide in “Spettri”  o dei bagni inquinati in “Un nemico del popolo”. Nessuno di questi elementi costituisce il tema principale: tutti e tre rappresentano il terreno di prova che separa, moralmente parlando, gli uomini dai ragazzi. La pièce di Kushner verte sulla guarigione e sull’accettazione. In questo senso si pone nella scia di Eschilo, Shakespeare o di qualsivoglia nome prestigioso vogliate usare per presentare le vostre credenziali intellettuali. Nei grandi drammaturghi classici, la guarigione e l’autoaccettazione venivano pretese dall’alto. In una società senza divinità, curare le proprie relazioni personali è importante quanto curare il proprio corpo: legittima la nostra collocazione nel mondo. Il primo passo è la diagnosi. Nel lavoro di Kushner il cattivo è un personaggio realmente esistito: Roy Cohn, il fanatico avvocato di destra, l’assistente del senatore McCarthy, ricattatore e mestatore politico, morto di Aids a 59 anni nel 1986. Il posto di Cohn nella mitologia di Kushner è definito dal fatto che rifiuta la propria diagnosi. Fa sesso in giro con i ragazzi, ma lui no, non è assolutamente omosessuale. Ciò che lui è viene definito da chi lui è. La sua personalità e i suoi valori sono determinati dalla sua funzione pubblica: una concisa definizione del politico che divora se stesso. C’è un buco nero al centro di quest’uomo che non ha alcun intendimento o qualità morale se non quella di manipolare la gente ed esercitare il potere. La stupenda, corrosiva e sottile interpretazione di David Schofield (un istrionico Al Pacino nella altrettanto “necessaria” versione televisiva firmata da Mike Nichols – n.d.t.) ritrae un uomo che non ha un sé privato che lo possa rassicurare, ma solamente un sé pubblico che lo tormenta con l’ipotesi del disastro. Il suo odio per gli omosessuali è un odio di sé particolarmente perverso, perché si fonda su una doppiezza privata. Molti gay vorrebbero avere dei figli e rimpiangono di non averne, mentre la condizione di Cohn è l’assoluta sterilità: il rifiuto di ammettere il proprio bisogno non solo di figli ma anche di compagni. La prima parte di “Angels in America”, intitolata “Si avvicina il millennio”, è incentrata sulla diagnosi. La seconda parte, che reca il titolo “Perestroika”, verte sulla guarigione o sulla sua possibilità. Verrà il giorno del giudizio, e ciascuno sarà collocato al posto giusto? L’ebraismo di Kushner rafforza la sua etica pragmatica e laica. Il suo è tuttavia un ebraismo junghiano una prerogativa, questa, tipicamente americana. Un angelo femmina, un’anima alata gentile e rassicurante, reca parole di speranza da parte di un Dio maschio che può o non può esistere. Ho avuto un sussulto quando menziona “i poveri figli ciechi della diaspora”: la cultura gay ha ancora un complesso di martirio che a volte trabocca nell’autocommiserazione, cosa questa sempre meno comprensibile. D’altra parte un simile complesso può anche originare una vena di presuntuosa arroganza che manca del tutto nella scrittura di Kushner (e anche nella sua “traduzione” in immagini effettuata con un vigore anche partecipativo davvero insolito da Nichols - n.d.t..). Il sottotitolo della pièce è “Fantasia gay su temi nazionali”; argomenti principali sono il fanatismo, l’ideologia vuota e il tradimento. Coloro che, come il giovane avvocato  mormone Joe, si dibattono disperatamente  fra pulsioni conflittuali di etero e omosessualità, di generosità personale e di professionale settarismo politico, sono condannati a vivere in una terra di nessuno creata da loro medesimi. Louis e Prior, i due amanti “consapevoli” vengono presentati nella loro fremente vulnerabilità ma in  una prospettiva salda e controllata che ne mette in evidenza le discrepanze. Louis abbandona Prior che è malato di Aids, perché non riesce a sopportare la sua agonia (non perché si rifiuta di accettare la sua condizione), e finisce in un deserto emotivo e morale dal quale lui solo può trovare una via d’uscita. Louis e Prior sono due personaggi mirabilmente obbiettivi e commoventi, ma ritengo che il vero fulcro drammaturgico e morale sia da ricercare in Joe. Questi è dilaniato e tormentato sia sessualmente che politicamente. Quando comincia a innamorarsi di Louis si sposta anche senza rendersene conto, verso valori più liberal e più corretti. Questo non vuol dire che Kushner associ l’omosessualità a un decoro liberal: il suo ritratto di Cohn lo dimostra. No, Kushner dice che si deve sapere chi si è e che cosa si è, si deve trovare il coraggio di accettarsi, prima di poter costruire se stessi e scegliere la propria vita. L’angelo della salvezza arriverà, ma solo quando si sarà stati capaci di diagnosticare la propria condizione. Philip Roth disse una volta che la differenza fra l’Est l’Ovest non comunista risiede nel fatto che all’Est niente era permesso e tutto aveva importanza, mentre all’Ovest tutto era permesso  e niente aveva importanza. Kushner sogna un’America dove tutto sia permesso e tutto abbia importanza; un paradiso liberal con una mitologia generosa e non punitiva. “Angels in America” è un’opera fondamentale nel teatro americano. Devo dire che “Perestroika” mi è piaciuta meno di “Millennium”: la scrittura appare più prolissa, qualche volta c’è perfino un po’ di autocompiacimento; e l’investimento intellettuale è un po’ eccessivo rispetto al risultato drammaturgico che determina. Il parallelo con la perestroika sovietica non funziona del tutto: è facile paragonare, come Kushner fa implicitamente, la caccia alle streghe di McCarthy con il fascismo sovietico (sì, proprio così: “fascismo” e non “comunismo” – n.d.t.). Non tutte le ideologie sono criminali allo stesso modo (ma forse, ragionando in prospettiva, Kushner con la sua similitudine non era poi andato molto lontano dalla realtà.). E tuttavia l’argomento e la potenza evocativa tengono insieme le due parti; potenza evocativa che sa essere rabbiosa e riflessiva, appassionata e indulgente. I dialoghi sono avvincenti, caustici e divertenti. L’umorismo di Kushner è come la pioggia acida: è nero, corrode il suolo su cui cade e vi incide nuove forme, inducendo gli spettatori di questa “Divina Commedia” moderna alla riflessione che è il primo passo  per la riconquista di un (magari effimero) paradiso savio e difficile, certamente più consapevole e altruista.
                                                                      (John Peter - “The Sunday Times” – 28 novembre 1993).

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