Regia di Davide Ferrario vedi scheda film
Le storie di cui preferiamo non accorgerci ci urtano per strada per fare in modo che ce ne accorgiamo,aspettano l’assenso del nostro sguardo, per trovare il coraggio di raccontare sé stesse,mentre vorremmo stornarlo.
Le storie che sono le persone,mimetizzate nelle vie di un luogo,reale ed immaginario per come viene reinventato,che è scenografia e riparo dalle paure,maturate nel lungo rinvio in cui patiscono per il desiderio di esordire una volta per tutte.
Una di loro può essere Martino,al quale le parole possono dare fastidio perché impigriscono lo sguardo e sottraggono tempo alle proiezioni private di una passione che si sente viva quando decade il rumore attraverso il quale ci si fa spazio nella gabbia quotidiana,e che si sente a suo agio nell’alleanza con i pacifici fantasmi della fantasia.
E Amanda,che ripiega sul cauto sarcasmo del sorriso per non dar voce al faticoso grido che si porta dentro e si ferma davanti all’inevitabile sacrificio del romanticismo,perché più in là della delusione quotidiana non si può andare.
E poi Angelo,che ruba (come fa un regista?)per non essere derubato,picchia la realtà alle cui lusinghe non crede più e compra a piccole rate la sua felicità senza novità.
Tre persone,tre pagine che non sono bianche immacolate,che smarriscono e recuperano la segnaletica che indica loro con apparente casualità il luogo dei loro incontri;un tracciato,più che un itinerario,che non c’è bisogno di nascondere perché chiunque,come loro,pur passeggiando a passo svelto e nervi tesi,può scrivere un soggetto,una storia da sviluppare,poiché le consuetudini dell’esistenza sono già l’insieme di episodi di una sceneggiatura scritta con sotterranea coerenza.
In quello che è forse il suo film migliore,Ferrario vuole dirci che non bisogna tenere gli occhi chiusi in attesa di un grande romanzo sentimentale,perché l’ispirazione è solo l’atto finale di una trasfigurazione del quotidiano che si sviluppa naturalmente in sé e non è negata a nessuno,la cui disponibilità ci avvicina di continuo per confermarci che è più facile che i caratteristi siano presenti al cinema che non nella vita vera.
Senza tante circonlocuzioni Ferrario ammette che il regista è un ladro spesso contento di esserlo e un ingannatore con la pazienza di cercare vittime,e così facendo riconsegna le coloriture del linguaggio umano a chi ne è mittente e destinatario nella vita e non artefice sullo schermo:è,questa,un’ammissione serena inserita in un contesto amaro raccontato per sottrazione,nel quale a Ferrario riesce bene il gioco delle citazioni che sono dichiarate senza che si debba cercare di coglierle,anche perché viene offerto loro il luogo perfetto nel quale raggrupparle tutte,quella Mole-Museo che è magazzino di evocazioni e ricordi e dove si dispiega in tutta il risentimento questo Jules e Jim del nuovo millennio di inesperta familiarità.
Poiché nel cinema italiano la storia d’amore non è sfruttata come genere che permetta di visualizzare i temperamenti e gli istinti dei personaggi,risulta tanto più rinfrancante questa ,così straniata,percorsa da fremiti e fatterelli all’apparenza insignificanti,inseriti come fossero piccole fondamentali rivelazioni in una scrittura di fede laica nei progressi delle condizioni di vita com’è quella di Ferrario,in questo coadiuvato da un terzetto d’attori in cui spiccano la prontezza impertinente di Francesca Inaudi e il volonteroso Pasotti.
Il tenero riserbo di Martino,l’insoddisfazione conciliante di Amanda e la reticenza di Angelo dimostrano quanto il surreale,o qualcosa che gli si avvicini come può esserlo la libertà dei sentimenti,sia nascosto dappertutto e che coglierlo attraverso le immagini (come fa il ramingo Martino per la città) non è voyeurismo,perché guardare non significa sottrarre vita ma darne all’oggetto del nostro interesse,soprattutto quando la curiosità non contiene in sé alcun giudizio.
L’imprevisto colpo di scena che esonera Angelo dalla storia è una spaccatura pacata che compie la scelta che Martino e Amanda non si decidono a fare:proseguire insieme,ansiosi di affacciarsi dalla Mole sul panorama che si domandano se sia meritato o no,né perdenti né vincenti,ma uguali a sé stessi come sono molti innamorati.
Robusta e intensa prova di maturità registica,disadorna e attraente nella commistione di citazioni e di desiderio di novità,dedicata a inquadrare nei dubbi e nei rimpianti anime in cerca di qualche soddisfazione mentre cercano di uscire dalla posizione scomoda in cui potrebbero rattrappirsi per assumerne una eretta
Spesso sembra un emulo di Accorsi quando viene preso dalla voglia di dimostrare,ma qui cambia tono e,anche se corre troppo nel pronunciare le battute,avanza e si ritrae con passi molto attenti per fare del suo Martino non un servo della sua timidezza ma un innamorato della pace.
Ha un’ammirevole limpidezza di dizione non impostata,un volto che va incontro alla bellezza per schivarla all’ultimo momento,un’eleganza fisica da atleta che la fa sembrare una maschietta degli anni Venti.
Per la sua simpatia trasandata convince più che per la recitazione perché fa troppo o troppo poco,centrando comunque uno schizzo più che un ritratto di uomo astuto e inefficiente al tempo stesso,che non cresce come chiunque abbia paura della solitudine.
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