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L'odore del sangue

Regia di Mario Martone vedi scheda film

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La recensione su L'odore del sangue

di giuvax
6 stelle

Peccato ch’io sia così ignorante da non conoscere il libro di Parise da cui il film è tratto.

Peccato. Rimedierò.

È una storia greca, come tutti i film di Martone. È una storia dai contorni precisi, pur se apparentemente sbiaditi, in cui ci sono regole precise e nemmeno ci è dovuto, di saperle del tutto.

È una storia sofoclea forse più di una trilogia drammatica di Sofocle, trasuda speranza, quella di riuscire a sopravvivere all’incapacità stessa di vivere e di capire gli altri esseri umani.

È un racconto di guerra, quella appena accennata tra i racconti e l’embrionale romanzo di Carlo, e quella di due persone che fanno di tutto per accettare qualcosa che si sono imposti troppo lucidamente per sostenerne davvero il peso senza danni. È un racconto di guerra com’era Teatro di guerra, violento senza mostrare violenza, dannato senza mostrare condanne.

In Teatro di guerra sentivamo gli echi degli spari in lontananza, ma in fondo, vergognandoci un po’, tiravamo un sospiro di sollievo per essere ancora qua, nella nostra realtà. Non perché la nostra realtà sia meno drammatica o violenta o pericolosa, ma solo perché sono paure a cui ci siamo abituati, e che non ci bisbigliano nell’orecchio di stare sul chi vive pronti alla fuga.

Qua invece Martone mostra, e sembra una prospettiva opposta a quella della guerra, perché ci catapulta da estranei in una realtà che di solito sarebbe normale, triste ma normale: e mostra quanto sia facile essere violenti e dannati per la presunzione di decidere di esserlo, e di soccomberne. Mostra quanto sia veloce l’autodistruzione dell’essere umano quando prende decisioni dure.

A nove minuti dalla fine non oso guardare, quasi non ho il coraggio, sono estasiata dalle inquadrature, dai tempi, dai silenzi; sono incantata dai lavori per sottrazione, magnifici come sempre, che però mi spaventano, perché costringono la mia mente a riempire i vuoti, e quando i buchi sono lasciati alla mia immaginazione, io mi spavento, perché li riempio con i miei incubi. E così ogni spettatore, e questo Martone lo sa, e per questo odi et amo.

E proprio per questo sapevo che mi sarei innamorata del film, pur se non così bello come gli altri di Martone, l’ho sospettato dalle prime scene, troppo silenziose, troppo felici, troppo piatte, era come sentire di non sentire, era come accorgersi del silenzio che abbiamo intorno quando è innaturale e gli uccelli se ne stanno zitti, perché deve arrivare il temporale, o il terremoto. Me ne sono innamorata un po’ ingenuamente, come ci si innamora anche delle persone con tanti difetti, e infatti non sarò originale a parlare di recitazione, non sarò originale a parlare di promesse disattese, di ansie e tensioni portate allo spasimo e poi sfogate nei momenti sbagliati. Ma io non scrivo per parlare definitivamente bene o male di un film, scrivo per riversare emozioni che mi sono state riversate addosso. E allora: sarebbe facile ripetere in questa sede i difetti di questo film, io non nasconderò la mia opinione ma non mi dilungherò su cose già dette.

Io temevo la tragedia perché la sentivo arrivare; e quando alla fine ce l’ho avuta davanti ho dovuto tirare un sospiro un po’ più profondo per riuscire a sopportare.

E come me probabilmente anche Carlo, il protagonista, ne ha avuto bisogno, lui che fa uso di Lexotan e che ha quel tipo di scatti violenti caratteristici del distonico, mentre lei, Silvia, è in fondo una pazza lucida, convive con dei lenti e graduali ingigantimenti del suo stato alterato, non ci stupisce anche quando fa cose ben più strane e inaspettate.

E sia: però no, non me la fate vedere, non la voglio vedere, ho paura di come una pazza lucida e consapevole possa esser finita, la tragedia che respiravo dai primi fotogrammi ora mi sta chiudendo le sue dita attorno al collo e non posso fare altro che soccombere, e lei è lì: bianca, bianca e sottile come il neon che la illumina.

O dannato Martone, che ami giocare con l’immagine e ami sezionarla e stuprarla per goderne di tuo piacere.

Di tuo piacere, e di nostro. Il piacere di capire il dolore e di sentirlo addosso insieme a loro. A questi due dannati esseri umani. E allora la sinfonia si chiude e il tema iniziale ritorna, e la calma avanza, ma è quella calma cui rinunceremmo facilmente se potessimo.

Perché è la calma del silenzio, di nuovo, innaturale, del subito prima o subito dopo un disastro della natura, un maremoto, un sisma, un incendio.

Tu, Carlo, non puoi che rimanere solo, perché noi spettatori non possiamo più accompagnarti nel tuo gioco.

Non possiamo più seguirti nella tua mania malata di sapere i particolari della sua storia d’amore: non più.

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