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Fanny & Alexander

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Fanny & Alexander

di ed wood
8 stelle

E' mia ferma opinione che il Bergman "televisivo" della seconda parte di carriera sia stato meno grande di quello prettamente cinematografico degli anni 50 e 60, periodo in cui ha realizzato i suoi capolavori. Non che il maestro di Upsala non abbia saputo confrontarsi col mezzo televisivo, anzi. Ma credo che la potenza espressiva dei suoi film per la sala sia superiore a quella di opere come "Scene da un matrimonio" e "Fanny e Alexander", dove il peso della committenza televisiva si avverte, specialmente nelle brevi sequenze di raccordo, costituite da "funzionali" inquadrature di esterni. Inoltre, il fatto che la versione cinematografica di "Fanny e Alexander" sia asciugata di un paio d'ore rispetto a quella televisiva comporta una inevitabile disorganicità narrativa, che penalizza alcuni personaggi e si ripercuote sulla mescolanza di toni e umori. Ne consegue che alcune pagine, di queste variopinte 3 ore di drammi domestici, siano più ispirate di altre. Non è un'opera di sintesi, come si è portati a credere, ma un approfondimento rapsodico e discontinuo di ossessioni bergmaniane ed eterni dilemmi esistenziali. Le pagine più riuscite sono quelle in cui Bergman affronta, anche esteticamente, il tema cardine del film (e di tutto il suo cinema): la Morte. La sequenza dell'agonia del padre è magistrale per la gestione dello spazio: fino a quando la mano del moribondo non stringe quella del figlioletto terrorizzato, non si direbbe nemmeno che i due personaggi si trovino nella stessa camera. Bergman rende qui, tramite ellissi spaziali e un tempo infranto dal montaggio, il concetto di separazione fra due anime, nonchè di angoscia al cospetto della Grande Falciatrice. Ancora una volta, Bergman fa i conti con l'odiata figura del padre, qui scissa in due persone: il padre naturale e quello adottivo, rispettivamente contraddistinti da un senso di fantasmatica assenza/impotenza e di oppressione fisica/mentale. Il misantropo Ingmar non fa sconti nemmeno all'universo femminile, ovviamente: se quello maschile è composto da adulti irresponsabili e accidiosi, ora fragili ora gaudenti, quello femminile è tinteggiato (non senza una punta di misoginia) come vittima consapevole e consenziente degli infami "trucchi" seduttivi del maschio. Ed ecco così una madre-martire, che per cieco ed insensato "amore" consegna i propri figli alle sciagurate cure di un vescovo, "maschera incarnata" di aberrante possessività. Il piccolo Alexander è Bergman bambino: un contenitore di odio e livore nei confronti della famiglia, che sfoga con parolacce e crescente insolenza il suo amaro sentimento nei confronti di un mondo tanto agiato quanto crudele. Non c'è spazio nemmeno per una vera solidarietà fraterna: il personaggio di Fanny, almeno nella versione per il cinema, è praticamente inesistente, e questo è indubbiamente uno dei difetti del film. Bergman cita più volte se stesso e le sue immagini: la stretta di mano con la Morte ("Il posto delle fragole"), l'amnesia a teatro ("Persona"), gli spasmi della malattia ("Sussurri e grida"), il silenzio di Dio ("Luci d'inverno"), maschere ed illusioni ("Il volto"), la triste ronda del piacere ("Sorrisi di una notte d'estate") etc...Nondimeno, il film ha talora il retrogusto dolce e l'ottica sfocata dell'Amarcord felliniano (coi fantasmi e gli "spiriti" orrifici di "Giulietta", però): la buffa scena delle scorenge dello zio mi pare un chiaro omaggio al grande film di Fellini...Spesso, specialmente nella prima parte, quella della festa di Natale, le scene vengono riprese frontalmente da lontano e i personaggi si girano verso l'obiettivo, come se fossero colti di sorpresa: altro artificio felliniano...Meno efficace, invece, fra gli espedienti mutuati dal maestro riminese, l'utilizzo sporadico di un registro grottesco-godereccio, come nella goffa sequenza del letto sfasciato da un amplesso troppo esagitato...Tra l'altro, "Fanny e Alexander" va ad inserirsi in uno dei pochi filoni autoriali che hanno contraddistinto il misero panorama europeo degli anni 80: assieme alle coeve opere di Victor Erice e Terence Davis, questo film va ad aggiungere un tassello a quel cinema della memoria, oniricamente filtrata dall'opacità di sguardo tipica dei ricordi più remoti, resa dolente ed inquietante dal tipico acume infantile. Film di melliflue illusioni e scabrose verità, maschere ammalianti e furore represso, al netto di tutti gli scompensi strutturali, ci ricorda con crudeltà e orrore che la morte viaggia sempre al nostro fianco e le fiamme dell'inferno non smetteranno mai di ardere nella nostra mente.

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