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Big Fish. Le storie di una vita incredibile

Regia di Tim Burton vedi scheda film

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La recensione su Big Fish. Le storie di una vita incredibile

di LorCio
10 stelle

Cialtrone buffonesco o cronista fedele? Finzione sognata o realtà inconcepibile? Che importa: un uomo diventa le storie che racconta. A chi interessa se le avventure stravaganti di Edward Bloom siano frutto di una florida fantasia o rigorose cronache esistenziale? L’aspetto più affascinante di Big Fish non sta tanto nel capire chi sia Ed Bloom, ossia l’indagine che il figlio Will intraprende per conoscere davvero il vecchio padre morente, ma nell’assistere al racconto del suo immaginifico, e dunque capire come egli vuole che sia ricordato. È ovvio che ci siano reticenze nei suoi racconti (e spesso riguardavano la sfera sentimentale, come ci lascia intendere Jenny, forse strega, forse reincarnazione giovanile della strega stessa, chissà), così come ci siano invenzioni create per rendere ancora più avvincenti le storie. Ma tutto è rivolto all’obiettivo di lasciare un ricordo non banale di una persona: non le avrà vissute in prima persona, quelle storie bizzarre, ma almeno ha avuto la gioia di donarle alla massa.

 

Se Edward mani di forbice (c’è sempre un Edward di mezzo) resta il capolavoro del primo Burton, quello più grezzo ma già splendido, Big Fish è quanto di meglio potesse offrire il quasi cinquantenne regista: in quella che a tutt’oggi resta la prova più lieta (e meno sinistra nell’immagine, ma sotto la scorza il più sfuggente), in tutti i sensi, Burton trova una sintesi del suo cinema di piccoli antieroi (da Ed Wood – e ci risiamo con gli Ed – passando per il Victor de La sposa cadavere). Viaggia agli estremi della storia, attento a non strafare onde evitare la saturazione di un immaginario, realizzando una delle ultime favole (per adulti?) attingendo non solo al romanzo di Daniel Wallace, ma anche all’universo felliniano (il circo, ovviamente, ma non solo), a quello di David Lynch (ma in un risvolto più sereno, come possono essere la gemelle siamesi o il direttore del circo), fino ai Coen (Buscemi ne è la dimostrazione) e a quella lunga tradizione che va da Perrault ad Andersen.

 

Il bello è che non deborda: sempre compresso, generoso (lo è pure), “troppo”, ma è solo ricco e sereno. Alterna evidente realtà a palese fantasia (così sembrerebbe) in una cornice squisita, come un piccolo pesce che si muove in un oceano (e nonostante i racconti di Ed siano accostabili all’oceano, la sua vita non è una pozzanghera – anzi, addirittura le storie di Ed sono la sua pozzanghera, perché ne rappresentano in un certo senso il limite). È un romanzo di formazione in cui sono ben distinguibili le quattro stagioni della vita, una sorta di road movie esistenziale che attraversa le tortuose ed imprevedibili strade del nostro inconscio; e la morte è vista sì come lutto, ma anche come chiarificazione, tenera resa dei conti, immersione. Forse addirittura conto più di una vita non compresa.

 

Un film dolce e beffardo sull’illusione di una vita (e se Ed Bloom sia davvero consapevole della falsità delle sue storie e non le viva neanche per sogno, solo per suggestionare il prossimo?), corso da una sottile quanto delicata malinconia ravvisabile in scene sublimi (la lotta amorosa per conquistare Sandra è di un romanticismo delizioso e raggiunge l’apoteosi nell’incontro nel campo di asfodeli; senza dimenticare il bagno in vasca con Ed e Sandra invecchiati fino al commosso e commovente addio acquatico tra Will e Ed), impreziosito da un cast stellare (Ed è interpretato da un Ewan McGregor alla prova migliore, e da un Albert Finney immenso), puntellato dalle raffinate musiche del sempre preparato Danny Elfman. A futura memoria, da lasciare in ricordo a bambini sognatori. Finché ci sarà questo mondo, ci sarà bisogno di personaggi disposti a raccontare storie, e magari a viverle. Per non annoiarsi, per non far annoiare.

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