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La famiglia

Regia di Ettore Scola vedi scheda film

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CarolinaJacucci

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La recensione su La famiglia

di CarolinaJacucci
6 stelle

Compie trent'anni uno dei film più celebri di Ettore Scola, 'La famiglia', elegia da camera sul tempo che passa e (non) cambia le cose. Riproposto ieri, 18 dicembre, da Rai Storia, il film appare invecchiato, ma intatto nella sua grazia malinconia e nella verità della sua rappresentazione.

Ieri sera, 18 dicembre 2016, in prima serata su Rai Storia è andato in onda ‘La famiglia’, il film di Ettore Scola che quest’anno – lo stesso in cui, a gennaio, è scomparso il regista – ha compiuto trent’anni. È proprio con una festa di compleanno che si conclude il film: Carlo (Vittorio Gassman), professore di italiano e latino, spegne ottanta candeline circondato dai vari membri della sua famiglia diramata in più generazioni e innesti. Il lungometraggio si era aperto con il suo battesimo, all’inizio del Novecento ed è proprio il tempo, quello privato e quello storico, ad essere protagonista di una narrazione raccolta, compressa tra le pareti e i lunghi corridoi della casa di famiglia comprata dal nonno, il capostipite, anch’egli professore di lettere, nel borghesissimo rione Monti, a Roma. A guardare questo film trent’anni dopo non si può fingere di non vedere le crepe su un’estetica fuligginosa e sulle conversazioni senza importanza che spolpano la sceneggiatura della sua sostanza drammatica: è pura mimesi del quotidiano, delle questioni minute dell’ordinario, i riti culinari, i bisticci, gli accessi d’ira e di tenerezza, il lessico famigliare di cui scriveva la Ginzburg, quelle parole che non hanno urgenza di comunicare qualcosa, ma piuttosto quella di riaffermare un codice condiviso, l’appartenenza ad un nucleo comune, grumo di sangue ed educazione, prossimità affettiva e scarti temperamentali. Film corale e affollato, ‘La famiglia’ evoca senza approfondire le nature dei suoi personaggi e anzi sembra negare che possa esistere un’effigie caratteriale: più che spersonalizzazione, quello di Scola è un procedere per pennellate veloci, secondo una poetica impressionista che all’analisi psicologica predilige la sintesi di un’intera vita e di un’intera epoca attraverso umori e capricci, desideri inespressi e compromessi longevi. Carlo ama Adriana (prima Jo Champa, poi Fanny Ardant), una pianista, ma sposa la sorella minore Beatrice (prima Cecilia Dazzi, poi Stefania Sandrelli), d’indole più quieta e di mente più semplice: la passione irrisolta si trascina e scavalca i decenni, ma, una volta sotterrata, resta sepolta senza troppe recriminazioni. Si poteva fare qualcosa di più e non lo si è fatto, preferendo languire in un’ostinata bolla, nell’estensione accudente dell’umido grembo materno, la famiglia come istituzione e concetto prima che come realtà concreta : se questo film un po’ logoro non ha del tutto perso il suo fascino, è per il malinconico coraggio di raccontare una storia di ordinaria codardia senza tono di rimprovero, ma con una partecipe indulgenza nei confronti di chi ha scelto di vivere sempre tra le stesse mura, fisiche e metafisiche insieme, lettera e simbolo di un istinto di repressione e conservazione. Il tempo delle nostre esistenze giunge veloce al momento di presentare il conto: fa un po’ male vedersi allo specchio, ma è meglio non pensarci e soffocare il rimpianto con una forchettata di spaghetti al sugo. La noia domestica è il più universale dei sentimenti, quello più rassicurante e, in fondo, soddisfacente: le sue consolazioni sono sì sempre uguali a se stesse, ma anche infinite ed infinitamente efficaci.

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