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Il profondo desiderio degli dei

Regia di Shohei Imamura vedi scheda film

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La recensione su Il profondo desiderio degli dei

di casomai
9 stelle

Il capolavoro di Imamura. Nessun altro suo film scandaglia il Giappone alla ricerca del primitivo più del Profondo sentimento degli dei, e in nessuno è più evidente l'intento di ritrarre quel mondo sotterraneo con sguardo di entomologo. Senza spiegazioni o giustificazioni antropologiche di sorta, senza compiacimenti voyeuristici né censure.

Il capolavoro di Imamura. Nessun altro suo film scandaglia il Giappone alla ricerca del primitivo più del Profondo sentimento degli dei, e in nessuno è più evidente l'intento di ritrarre quel mondo sotterraneo con sguardo di entomologo. Senza spiegazioni o giustificazioni antropologiche di sorta. Limitandosi a scrutare i comportamenti degli esseri umani, così come la cinepresa cataloga la fauna di cui pullula l’ambiente circostante. Per chi nutra la propria cinefilia nipponica con le atmosfere rarefatte della triade Kurosawa-Mizoguchi-Ozu o con gli estetismi alla Oshima, la scoperta del meno conosciuto Shohei Imamura rappresenterà uno shock salutare. Ai melodrammi con protagonisti ieratici e civilizzati persino nella dissolutezza subentrano storie di esseri sottosviluppati, in balia di istinti primigeni e superstizioni ancestrali. L'esordio del film è anche il suo manifesto. Il sole riempie di sé l'inquadratura: cocente, spietato, capace di far impazzire coloro su cui fa cadere i suoi raggi, locali o forestieri che siano. Dopo di che la macchina inquadra un serpente ondulante, un baco da seta e una lumaca bavosa che sembra sghignazzare come in un film di Dario Argento, per poi staccare sugli esseri umani, bestie fra le bestie. Qui non c'è codice dei samurai che tenga, né cerimonie del tè. Semmai incesti, punizioni rituali o omicidi collettivi, ma senza compiacimenti voyeuristici o facili censure. Perché al di sopra di tutto è un profondo senso del divino che si fa panteismo nel suo venerare e temere ogni singola manifestazione della natura. Un albero diventa un dio e non si può abbattere; l'unica sorgente d'acqua sull'isola è sacra e utilizzarla per le colture vuol dire infrangere un tabù; la roccia che un maremoto ha fatto atterrare sulla risaia della famiglia Futori è segno di sfavore ultraterreno, donde la necessità di espiare scavando un'immensa fossa. Non sorprende che l'arrivo da Tokyo dell'ingegnere Kariya per progettare un canale d'irrigazione per i campi di canna da zucchero, unica fonte di sostentamento economico, sia visto come tentativo di violenza al corpo dell'isola, madre e padrona dei suoi abitanti. Lo sguardo di Imamura plana su queste vicende con equanimità, senza approvare né condannare. E altrettanto fa riguardo al contrasto tra modernità e tradizione, limitandosi a mostrare la rapidità con cui anche i cosiddetti esseri civilizzati possono regredire ai primordi, se solo le condizioni lo consentono. Oppure, se vince la modernità, a registrare sommessamente, in un angolo dell'inquadratura, i cartelli pubblicitari della Pepsy Cola.

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