Regia di Kelly Reichardt vedi scheda film
The Mastermind (2025): locandina
Una partitura jazz di pregevole fattura firmata da Rob Mazurek, insieme a Chad Taylor e altri musicisti, un sax che stride, piange, maledice, sussurra, segue tutte le scene del film, non le sovrasta, le commenta, autentico personaggio di una storia ambivalente, pazza e normale, una rapina ad alto gradiente termico che ben presto si sgonfia come un pallone bucato.
Un thriller? No, tutt’altro, e se non bastasse il plot si capirebbe dalla fotografia, atmosfere cromatiche fatte di sequenze diurne luminose e immagini notturne scure, tutte sgranate anni ’70, tutte pervase dal silenzio del vuoto che circonda l’individuo, scollato dal mondo, comunicare è un’utopia, tentare un approccio spazio/tempo alle cose si traduce in disfatta.
Nulla di drammatico, non siamo sulla scena del teatro tragico, solo nella vita comune di un uomo, ancora abbastanza giovane, con moglie e due figli rompiballe quanto basta, figlio disoccupato di un giudice della contea.
Perché disoccupato nonostante padre, madre e moglie gli riconoscano indubbie capacità manuali (falegnameria) e intellettuali, non è chiaro, ma Kelly Reichard lo dipinge e fa muovere quanto basta per farne un modello sociale ben preciso, lo sfigato.
The Mastermind (2025): Josh O'Connor
JB Mooney, il mastermind al rovescio, fa danni, a sé e agli altri, ma non è cattivo, non è un criminale, è solo uno sradicato, uno che non ce la fa.
Ci prova, e da anti-mastermind lo fa con un progetto sgangheraato e pazzesco, ruba con due complici quattro quadri del museo locale, dipinti di tale Arthur Dove, astrattista all’epoca (anni ’70) semisconosciuto.
Il film inizia dalla rapina e si sviluppa, o meglio si contorce, intorno all’indiscussa incapacità di JB di gestire il malloppo.
Sullo sfondo, dal tubo catodico di antichi televisori, arrivano reportages dal Vietnam, cortei contro la guerra, immagini in bianco e nero di mondi lontani; JB è fuori, oltre, vagabondo in fuga suo malgrado, finchè non ci casca in mezzo, quel mondo lo abbranca e i suoi occhi sgranati in un viso perennemente immobile, stupefatto, inadeguato al ritmo vitale del suo tempo, si sgranano ancora di più.
"Assenza di una routine produttiva", così si può definire la vita di JB, la Reichard parte dall’evento (la rapina) per tratteggiare ciò che più le interessa, l'essenza del dramma umano che si coglie nei dettagli, nel non detto, in una comunicazione verbale essenziale.
Vita vera, uomo a una dimensione perché impossibile coglierne altre, l’intento delle proprie azioni sfugge, non è compreso, si può rapinare un Museo a fin di bene, per la famiglia, perché hai un padre castrante, perché vuoi di te un’immagine dignitosa.
Purtroppo non si possono confondere i ruoli, il criminale deve esserlo fino in fondo.
Definita dal New Yorker la "migliore osservatrice americana del coraggio ordinario", la Reichard dà ai suoi personaggi la forza e la profondità che ricordano Chantal Akermann, a cui è stata giustamente avvicinata.
L’uso al minimo della parola, la vita che non trascorre, si consuma, il suo senso tragico sminuzzato in infiniti, innocui gesti quotidiani, la morte che incombe inavvertita, ma c’è, è in quel senso che l’individuo si sforza ogni giorno a dare alla sua vita, il coraggio, se così si può chiamare, di piccoli uomini relegati nel loro stretto bozzolo da cui escono con il gesto più inutile ed eclatante: prostituirsi e ammazzare l’ultimo cliente dopo aver rigovernato casa e preparato la cena al figlio (Jeanne Dielmann in Akermann), rubare quadri nel Museo e farseli scippare da autentici criminali.
E’ vita questa? Si, anche.
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