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Eutanasia di un amore

Regia di Enrico Maria Salerno vedi scheda film

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La recensione su Eutanasia di un amore

di lorenzodg
6 stelle

   “Eutanasia di un amore” (1978) è il terzo (e ultimo) film di Enrico Maria Salerno.
   Dopo “Anonimo Veneziano” (1970) e Cari genitori (1973), l’attore milanese si cimenta nella regia cinematografica prelevando il soggetto dal libro omonimo di Giorgio Saviane pubblicato nel 1976.
   Nel plus-clamore all’uscita del film e nelle polemiche (acerbe e fuori posto) per l’argomento trattato è sempre utile rammentare l’epoca in cui ci siamo trovati e le situazioni di dileggio (e anche sovrappiù) quando un’opera (a qualsiasi livello narrativo e artistico) mostrava, con franchezza utile, uno scontro in partenza e un argomentare temi in diverso modo rispetto all’uso comune di certa cerchia culturale o per meglio dire di un mondo che si atteggia a (ri)saputo. Con questo antefatto è da dire che la collocazione di una pellicola può essere figlia di un certo tempo e appropriarsi di certi sentori contro il tempo stesso che si vive: un girare senza maestrie ma con maestri (senza presunzione) si gira una ‘finzione’ come se il circostante inglobasse il suo dire-non-dire. Che cosa si pretende di un film nato sotto già protezione di scorta quando l’autore del libro non è stato giammai acclamato (e sì che il discorso letterario aprirebbe scranni cattedratici lungi da ricredersi o almeno avere qualche dubbio su certi scrittori italiani maltrattati e abbandonati come merce cartacea da riciclo per roba più eccelsa e sopraffina) e, soprattutto, quando l’impero politico si copriva (i suoi gioielli inutili) e manifestava il ‘political correct’ con arguzia infestante e cretineria ispessita. Saviane non è mai entrato nel novero degli scrittori da ricordare; la sua produzione letteraria manifesta fin da subito un investigare al di là delle apparenze e scontri giornalieri: un ricercare profondo nell’intimità umana e oltre (basta ricordare alcuni suoi titoli “L’inquisito”, 1961, “Il mare verticale”, 1973, “Eutanasia di un amore”, 1976, “”Getsemani”, 1980, “Diario intimo di un cattivo”, 1989,  “Una vergogna civile”, 1991, “Voglio parlare con Dio”, 1996). I suoi testi non avevano facili proseliti e donavano, viceversa, lo scontro e la lotta alla pigrizia del vivere ‘tranquillo’ senza cercare sconti e illusioni di comodo. Il romanzo “Eutanasia di un amore” nacque in un ambiente non facile: il libro (in ogni caso) ottenne un successo di pubblico e premiato col Bancarella nel 1977.
   Il film prese piede da un gruppo di sceneggiatori (oltre allo stesso Enrico Maria Salerno e lo scrittore Giorgio Saviane ci sono Arduino Maiuri, Arduino Maturi e Massimo De Rita) e da una produzione-distribuzione composita Cineriz (di Rizzoli), Koral Cinematografica e Mario Cecchi Gori per Capital Film  (la sua Firenze come location l’aveva convinto più di ogni altra cosa ma certamente anche la presenza di Saviane, fiorentino d’adozione).

   Certo che la prospettiva di tradurre un romanzo (che partiva da giudizi contrapposti, schematico, retorico, commovente, corposo, molle, contro e, semplicemente, de-valorizzante) con un impianto convincente e personaggi che traducessero il più possibile il pathos incontro di un professore e di una ragazza era di per sé un’impresa ardua. Il regista nella scrittura coadiuvata tenta (ma non riesce completamente e in alcuni tratti cade, o meglio rischia di cadere, nel patetismo più trito e nelle lacrime interiori più lampanti) di assorbire la forza e l’entità vera del romanzo aggiungendo modi e stilizzazioni quasi compiacendosi di quello che sta girando. In altre parole se il romanzo soccombe in una storia contro senza modi inglobando una moda che ruota attorno a un decennio pieno di ‘confusione’, ‘ideologia’, ‘contraddizioni’, ‘animosità’, ‘attivazioni’, ‘pregiudizi’, ‘tendenze’, ‘ricerche’ e ‘sperimentazioni’. Da ricordare (in senso culturale e sociologico) quello che fu il referendum sul divorzio (12-13 maggio 1974) e ciò che lasciò nella società italiana (soprattutto nei primi anni): il cinema espresse (certo) crisi familiari nell’ambito della commedia all’italiana (basta pensare a Pietro Germi e a “Divorzio all’italiana” e “Sedotta e abbandonata”) ma non trovò (da subito) storie convincenti e modi di raccontare che aprissero ad una certa discussione. Dopo la ‘commedia’ il nostro cinema si rinchiuse per molti anni nella cosiddetta ‘commediaccia’ (semplicistica e puerile) con qualche prova d’autore (riuscita): due facce di una stessa medaglia che denotavano scarsa inventiva da una parte e code di classe di certi nostri grandi registi.
   Una pellicola, quella di Enrico Maria Salerno, che chiude nei modi un certo cinema italiano: strano che un ‘non regista’ segnali il passaggio (o la fine) di un mondo cinematografico in crisi d’identità (dal neorealismo a quello rosa, dalla commedia alle inchieste sociali) per stanare altre risorse. idee e altri stili. L’attore milanese, molto prolifico, si butta negli anni settanta nel cosiddetto genere ‘poliziottesco’ dove riesce a dire qualcosa rispetto a tanto altro cinema poco invogliante e di livello non certamente alto (soprattutto mediocre).

   In ogni caso si fa torto alla pellicola (e alla sua regia) etichettarla e catalogarla come un resoconto finale di quel tipo di filmografia degli anni settanta dove l’amore, l’intreccio, la solitudine e il rapporto di coppia entrarono in certa letteratura italiana (e non solo). Il cinema prese poco spunto da tali aspetti e “Eutanasia di un amore” diventa anche altro rispetto a quello che vuole raccontare (più o meno bene) e quasi la risposta (diciamo così) del film americano “Love Story” (1970) di Arhur Hiller, la storia d’amore che vinse il botteghino e conquistò tutti (nel senso che anche chi non ‘applaudì’ del film ne parlava).
   “Eutanasia di un amore” appare un film a strappi, disgiunto nelle sequenze e anche nei luoghi (nonostante fossero partecipi degli stessi); in un certo senso rituale e gestito didascalicamente nella digressione degli avvenimenti come conviene ad un’opera che vuole essere passionalmente lacrimevole e/o piangente dei limiti melodrammatici. Ma tutto questo, oltre ad essere un limite, rimane come ‘bellezza’ di un cinema impuro, impreciso e da completare: una prova a soggetto di un altro da rimontare in un girato più convincente. Ma gli aspetti, positivi e negativi, si intersecano vicendevolmente da assecondarsi e compiacersi in un grato tributo ad un certo stile ‘imperfetto’ ma che si ritaglia un modo ‘sui generis’ e di cui oggi quasi rivogliamo. Storie non concluse, aspirazioni inconcludenti per una storia d’amore in eutanasia come certa cinematografia italiana (che fu) e non si aspetta (altro) un ‘nuovo’ che deve arrivare (anche se gli stili paiono confondersi e tv-cine-fiction-reality-… sembrano in confusione di vera identità… ma qui si arriva avanti con più lustri passati e crisi ancora non rigettate).
   Si deve dire che le immagini e le ambientazioni risultano gradevoli e ammiccanti; manca (in alcune parti) il r(i)accordo tra recitato (e fuori campo) e successive inquadrature. Pare tutto un giostraio intelligente di sequenze a cui manca il motivo simbolico ed itinerante (di ogni passione che inizi o che finisca). La pioggia fiorentina con l’attesa in auto di Paolo è (vuole essere) dirompente nel rapporto di coppia e anticipatrice di un incontro di lì a poco. Il senso ultimo di un temporale che annienta un amore (impossibile) ricade in una città dove regna l’arte, la bellezza e il segno di un mistero recondito di stupore e  veglia. Una sequenza con rumori di fondo ben precisi e con un fastidio partecipativo da una vita sentita.
   La parte finale con la spiaggia, il sole, il porticciolo, le barche è oltremodo ‘folgorante’ e ‘accecante’ verso uno sguardo (lontano) tra due visi e le proprie slhouettes: tutto in una fotografia intensa, melò-romanza, inficiata nel dire e propensa al sentimento(alismo) non solo di facciata. La musica si appropria della luce e dello spazio tra i due (a distanza).

Trama:  Paolo (Tony Musante) e Sena (Ornella Muti) dopo una convivenza di dieci anni stanno per lasciarsi; lei vorrebbe un figlio ma già una volta Paolo l’ha costretta ad abortire. Ci sarà un’altra possibilità di vita insieme ma il figlio non fa per lui.

Cast: Tony Musante (nel periodo migliore della sua carriera) tiene bene il suo personaggio; quello che non completa il livello è la ‘partecipazione’ del set. Si ha l’impressione che l’attore si adoperi con il suo volto perso (o quasi) per dare tono alla storia. Ci riesce pienamente in più parti ma scade in altre per ‘demerito’ non suo: attorno un po’ povero (di idee?) il ‘rendimento’ della messa in scena e dell’autorialità recitativa.

Ornella Muti (bellezza inconfutabile) appare troppo statuaria e poco partecipativa degli eventi. Non basta la forma e il movimento ma non guasterebbe (condizionale d’obbligo per un’attrice che ha avuto fasi altalenanti o, forse, ruoli a lei non adatti..ma questo è un altro discorso) essere nell’altro come pubblico (e non auto compiacersi). La scrittura a tratti è quantomeno non ottimale.

Fotografia di Marcello Gatti suadente e accattivante per la storia e i luoghi (alcuni ben scelti).

Da menzionare il buon lavoro scenografico di Dante Ferretti.

Musica: Daniele Patucchi usa toni saporiti e soporiferi ma il tutto è certamente valido (e ingannevole) per un amore di incontri e scontri (con lacrime). Anche altro e alto (Beethoven) tiene forte lo score.

Regia: livello discreto (non sempre fluida ma sincera).

Voto: 6½.

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