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Trastevere

Regia di Fausto Tozzi vedi scheda film

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La recensione su Trastevere

di spopola
6 stelle

Rivisto stanotte grazie a Franco (@Cherubino)  è un film che suscita molta tenerezza e altrettanta nostalgia. Un  piccolo affresco proletario dolce/amaro che racconta una Roma  tutt’altro che da cartolina e che ormai da tempo immemorabile non esiste più: una collana infinita di episodi che, intrecciandosi fra loro, disegnano la povertà (a volte giocosa, altre truffaldina ) e le contraddizioni anche socialidi un quartiere  (Trastevere)  dove si era costretti a vivere ancora alla giornata (l’arte di arrangiarsi insomma) fra poliziotti infiltrati, farabutti, prostitute, vedovi, prelati poco religiosi, mariti depravati pieni di perbenismo ma solo di facciata e mogli succubi e ubbidienti loro malgrado ma dove c’è posto persino per un  nobile un po’ decaduto e omosessuale per fare un po’ più di colore.

 

Il pretesto  per tutto questo  andirivieni di figurine (che si concluderà  con un tragicomico  pellegrinaggio alla Madonna del Divino Amore)  è offerto dall’avvenuto smarrimento  del cagnolino  di un baritono (forse) di chiara fama, che attraverserà,  passando di mano in mano, l’intero quartiere sotto gli occhi  vigili  e scrutatori che tutto vedono e annotano, della sora Regina, venditrice di sigarette di contrabbando (e altro deus ex machina di  tutte le vicende qui narrate.

 

Tozzi (alla sua prima  ma anche ultima regia perché non gli verranno offerte altre occasioni) non sempre riesce a trovare il ritmo giusto per tutti i passaggi e gli snodi del racconto ma il film,  proprio perché è lo specchio di una realtà che adesso potrebbe sembrare fantascienza (quel “ si stava meglio quando si stava peggio” che spesso frulla nelle nostre teste) resta ancora un abbastanza gradevole appuntamento documentale.

 

Sicuramente affascinato da  questo singolare  coacervo di persone (proletari, profittatori, hippy  e così via discorrendo compreso qualche snob controcorrente) spinge il piede sull’acceleratore del grottesco e procede senza troppi intoppi  verso un finale da molti definito “felliniano” che prova (ma non ci riesce in pieno ed era inevitabile vista la differenza di statura che li separa) a recuperare la “ dimensione pagana del cattolicesimo orgiastico e funereo” (Il Mereghetti)tipicodel grande Maestro riminese…e questo forse qualche perplessità la può creare soprattutto nello spettatore odierno.

 

Cast (per quei tempi) stellare che va da Vittorio De Sica  a Nino Manfredi (a cui è affidata anche la canzone che accompagna i titoli di testa); da Vittorio Caprioli a Enzo Cannavale;da Rosanna Schiaffino a Ottavia Piccolo; da Leopoldo Trieste a Rossella Como; da Milena Vukotic a Gigi Ballista ( e sono rimasti fuori perché tagliati in post-produzione, Umberto Orsini, Martine Brochard e Riccardo Garrone. A loro va poi aggiunta una vasta galleria di ottimi caratteristi nostrani forse tenuti un po’ troppo sopra le righe. Sorprende invece la scelta di un’attrice straniera per un ruolo così importante quasi da protagonista come quello di Regina (Mikey Fox ) penalizzata fra l’altro da un doppiaggio fatto abbastanza male che a tratti è anche fastidioso, che qui risulta (purtroppo) totalmente avulsa dal contesto generale.

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