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Lost in Translation

Regia di Sofia Coppola vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Lost in Translation

di Theophilus
4 stelle

LOST IN TRANSLATION

 

 

Per valutare questo film, abbiamo proceduto per sottrazione. Ci siamo posti, in pratica, nell’ottica di che cosa Lost in translation non è, ovvero di quali caratteristiche non possiede.

Nonostante l’azzeccata disposizione alle gags di Bill Murray – senza dubbio felici i suoi atteggiarsi alla maniera di mentre posa in uno studio per le foto pubblicitarie di un nuovo whisky – la storia non può definirsi comica o brillante. Il suo stupore dinanzi alla petulanza e alla dispersione della lingua giapponese, infatti, è coerente con le sue differenti radici ed è tutt’al più messo in risalto dallo sfasamento di fuso orario, ma non ci rende comunque inclini al facile sorriso.

Non per questo, però, lo si deve definire drammatico. Bob, attore americano in crisi come tale e in trasferta a Tokyo per vendere la sua faccia, non se la passa poi tanto male: gli pagano due milioni di dollari, viaggio, vitto, alloggio e connessi – che lui rifiuta, certo, ma deve pur trovarsi qualche alibi a giustificare il suo disagio –, si prende una vacanza dalla famiglia con la quale non fa faville e bighellona tra un canale televisivo e l’altro nella sua camera d’albergo o per le strade della megalopoli giapponese… se giocasse in casa, probabilmente farebbe le stesse cose. E’ solo un po’ – ci si passi il termine – smarronato…beato lui.

Sentimentale, allora? Non diremmo proprio. Bob incontra una ragazzina appena sposata, Charlotte – Scarlet Johannson – che viene regolarmente lasciata sola dal marito in perenne surmenage lavorativo. Ci fa amicizia, ci gioca un po’ al papà e alla bambina, va a cena con lei qualche volta, fa il karaoke, si presta senza particolari ansie o tensioni a fare il burattino in quel mondo fasullo, le dà qualche bacetto, scambia con  lei alcuni bigliettini e le rincalza le coperte. Tutto qui. Forse ritarda di un giorno la partenza – ma non ne siamo del tutto sicuri – e se ne va lasciandola in lacrime.

Detto tutto questo, si deve obbligatoriamente escludere che Lost in translation – che cosa c’entri il posticcio titolo italiano L’amore tradotto non l’abbiamo ancora capito – sia un film  passionale (se ha voluto esserlo, la regista ha camuffato così bene le proprie intenzioni che neanche il tenente Colombo riuscirebbe a venirne a capo), tragico, un thriller, un noir. Si tratta dunque di una commedia? Mah, il bello è che non succede quasi niente nel film che possa giustificare quella parola. Sofia Coppola ha riferito di aver voluto creare un senso d'aspettativa nello spettatore per qualche cosa che doveva accadere… ma tutto questo ci sembra un po’ poco. La ringraziamo per non aver messo i due protagonisti a letto insieme; per quanto ci riguarda questo è stato l’unico vero motivo di suspense: se ciò fosse accaduto sarebbe stato, invero, il trionfo dell’ovvietà… ma chi se ne sarebbe, poi, scandalizzato?

Un film introspettivo, allora? Charlotte rivela di non sapere ancora che fare della sua vita – ma se è poco più di una ragazzina! E Bob scopre l’acqua calda quando dice che i figli cambiano la vita. Disprezza forse i dollari dei giapponesi e vi rinuncerebbe volentieri per tornare a fare l’attore? Neanche per idea! Quando sa da Charlotte che lei è laureata in filosofia, non riesce a dirle altro che troverà la maniera di fare i soldi. Vogliamo allora negare che nel film ci sia della poesia? Quando noi usiamo quel termine, pensiamo sempre al profumo particolare di un’esperienza autobiografica trasposta direttamente o meno, ma con intensità, rabbia o dolcezza, dolore o tenerezza, gioia o tristezza sulla carta o sulla pellicola. Ma qui non siamo riusciti ad avvertire nessuna colorazione particolare, niente al di là di una semplice trascrizione di un dato biografico della regista che avrebbe affermato di avere in parte dipinto se stessa in Charlotte, in un periodo da lei effettivamente trascorso in Giappone.

A forza di raschiare e di scartare, che cosa ci rimane? Non molto, in verità. Se vogliamo cavarcela col dire che si tratta di un film minimalista, facciamolo pure.

 

Enzo Vignoli

27 dicembre 2003 

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