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Lost in Translation

Regia di Sofia Coppola vedi scheda film

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AlbertoBellini

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Lost in Translation

di AlbertoBellini
9 stelle

(Tutti vogliono essere trovati)

 

Persi nella traslazione. In fisica, il moto di traslazione è il movimento rigido di un corpo, il quale avviene in modo tale che ogni retta passante per una qualsiasi coppia di suoi punti mantiene inalterata la direzione. Relazione interessante, assai perfetta per descrivere un'opera che, tuttavia, maschera un titolo il cui significato è ben più diverso e significativo. Quel Translation difatti - nonostante in italiano perda completamente di significato - è inteso come traduzione. Persi nella traduzione, dunque... ma la traduzione di cosa, da parte di chi? Domande che non troveranno una risposta con la visione della suddetta opera, o almeno, non una risposta concreta, precisa e ben definita. Il compito è dato allo spettatore, che potrà dare una propria, personale interpretazione.

 

«- Più conosci te stesso e sai quello che vuoi, meno ti lasci travolgere dagli eventi. 

- Già… è solo che io non so cosa voglio diventare, capisci? Ho cercato di fare la scrittrice, ma detesto quello che scrivo. Mi sono messa a fare fotografie, ma sono mediocri. Sai, ogni ragazza attraversa una fase - la fotografia - con la fissa dei cavalli... o fa foto dei piedi.

- Ce la farai di sicuro, non sono preoccupato per te. Continua a scrivere. 

- Ma ho dei limiti.

- Non è un male.»

 

Trascorrono quattro anni prima che Sofia Coppola rimetta mani sulla macchina da presa, in seguito alla realizzazione de Il giardino delle vergini suicide. Se quest'ultimo si trattava di un esordio, folgorante certo, ma legato comunque a quella che allora era la casa della giovane Sofia - quell'accogliente cittadina di Detroit che ricordava vagamente la Lumberton di Velluto blu - e dunque racchiuso ad un ambiente casalingo ben conosciuto, con Lost in Translation ci spostiamo, viaggiamo. Tokyo è la destinazione. Ci ritroviamo a migliaia e migliaia di chilometri di distanza, tuttavia, in qualche modo, ci sentiamo a casa. Tokyo, immersa in un oceano di luci colorate che la rendono futuristica, a tratti aliena, come la Los Angeles di Blade Runner, metropoli del progresso tecnologico e culla di una relazione che non progredisce. In una giornata qualunque, due comuni mortali qualunque si incontrano in un lussuoso albergo, ognuno con i propri desideri, speranze e i propri conflitti. Lui, Bob Harris, un maturo attore in declino, giunto nella capitale giapponese per girare uno spot pubblicitario di una marca di whisky, e lei, Charlotte, una giovane neolaureata che accompagna il marito fotografo per un incarico lavorativo. Così diversi, così lontani, eppure tanto vicini, accomunati e legati da un qualcosa che i due cercheranno nel loro viaggio. Dal sollievo di riconoscersi tra la folla, di (ri)trovarsi finalmente dopo tanto tempo, Bob e Charlotte si frequenteranno, fuggiranno insieme per i locali della città, entrando in una dimensione onirica che li accompagnerà per tutta la durata del breve ma intenso soggiorno.

La macchina da presa, mossa con una delicatezza impressionante dalla Coppola, torna a raccontarci due generazioni diverse, in un momento particolarmente difficile ove queste vengono messe a confronto da una forza maggiore. Una storia d'amore per nulla classica - se guardiamo al panorama cinematografico -, ma capace di far immedesimare lo spettatore, che sin dai suoi albori ci viene mostrata nei suoi attimi di felicità, di spensieratezza, ma anche nelle fasi più dure e drammatiche. Lo sguardo della regista si pone sui due caratteri e sulla loro quasi inconveniente relazione. Ne analizza i pregi ma soprattutto i limiti, sia caratteriali e d'animo di ognuno dei due che quelli nati dal loro incontro, dalla loro unione. Sofia si fa maestra nel narrare un amore delicato, leggiadro di sostanza, timido, genuino seppur anomalo, vittima (ancora una volta) di una società, un sistema, una vita "preimpostata". Un amore definibile fanciullesco, ma vero, che non si risolverà in un rapido e privo di pathos rapporto sessuale. Essa cerca in tutti i modi di spronare i due, vaganti in una città progressista ma sconosciuta, alla ricerca di quella chiave che possa liberarli dagli obblighi imposti e autoimposti. Ad ogni inquadratura si percepisce la forte, triste rassegnazione dei due protagonisti, che - nonostante ci provino - proprio non appartengono al mondo in cui sono costretti a vivere. La Tokyo allucinata dalle luci e dai video-game non fa per loro: essi restano in camera, parlano, si perdono nel bianco e nero felliniano de La dolce vita, e ad ogni sguardo scambiato si capiscono più di prima. In questo, è necessario rivolgersi al cast, ridotto a due soli interpreti: una diciannovenne Scarlett Johansson (vincitrice di un BAFTA per la miglior attrice protagonista) e Bill Murray, oggi due divi di fama internazionale, che allora si cimentarono in due ruoli del tutto atipici rispetto a quelli a cui siamo abituati a vedere. Basti pensare ad un attore (principalmente) di commedie demenziali come Murray, che qui ci regala il ruolo della vita, incarnato in un personaggio spento, inerme, talvolta antipatico, manifesto della contraddizione della fama e della ricchezza, ai quali il mondo intero, spesso a sua insaputa, aspira da sempre e per sempre. I due attori riescono nell'impresa di trasmettere a chi li guarda ogni singolo momento sentimentale che compone una relazione fallita già in partenza, la quale non potrà che concludersi allo stesso modo in cui è iniziata: tra la folla. Bob e Charlotte, con un commovente abbraccio, si lasceranno, tristi ma speranzosi, ad un nuovo incontro o a mai più, chi lo sa… è certo però che le incomprensibili parole sussurrate da lui (che mai sapremo) conferiranno la forza ad entrambi per continuare questo travagliato ed imprevedibile percorso che è la vita, poiché nonostante tutto, là fuori ci sarà sempre qualcuno come noi, qualcuno per cui vale la pena continuare. Sequenza meravigliosa, accompagnata dal brano Just Like Honey dei The Jesus and Mary Chain, facente parte di una colonna sonora come sempre notevole nel cinema di Sofia, curata dal leader dei My Bloody Valentine, Kevin Shields, la quale comprende diversi altri suggestivi brani quali Alone in Kyoto degli Air, Brass in Pocket dei The Pretenders - esibita dalla Johansson in quella che è la scena madre del film, ovvero il karaoke in un locale notturno -, e Too Young dei Phoenix, prima 'apparizione musicale' della band capitanata dal futuro marito della regista, Thomas Mars.

 

 

«-Sai mantenere un segreto? Sto organizzando un'evasione da un carcere. Mi serve, diciamo, un complice. Prima dobbiamo andarcene da questo bar, poi dall'albergo, dalla città e infine dal paese. Ci stai o non ci stai?»

 

Acclamato - giustamente - da pubblico e critica, tanto da permettere a Sofia di aggiudicarsi l'Oscar per la migliore sceneggiatura originale, scritta dalla medesima, ispiratasi a grandi cineasti come Bob Fosse e il nostro Michelangelo Antonioni, e forse alle proprie relazioni passate, oggi concluse, con Spike Jonze e Quentin Tarantino; Lost in Translation è solo il secondo tassello di un piccolo, gigantesco mosaico, nonché l'inizio di un processo di analisi/critica nei confronti di una certa fetta della società, quella che viene volgarmente additata come la più 'fortunata'. Per concludere, dal mio canto, il significato di Lost in Translation risiede nel disagio di coloro che non conoscono la lingua del paese in cui si trovano, del mondo in cui si trovano, costretti così a dover ricorrere al linguaggio di un sentimento intraducibile, tanto analizzato e sviscerato inutilmente come l'amore.

 

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