Regia di Danny Boyle vedi scheda film
Nel terzo capitolo della saga dei 28 anni, Danny Boyle non si limita a raccontare la fine del mondo, ma la metabolizza attraverso una grammatica visiva estremamente radicale, che sfrutta appieno i dispositivi contemporanei per far coincidere forma e contenuto.
Gli smartphone e le videocamere digitali ultra compatte vengono sfruttati per rendere la visione più soggettiva, pulsante e immersiva, proprio come la nostra esperienza quotidiana del mondo, mediata da schermi e immagini istantanee.
Si tratta di aggiornare l'estetica del primo capitolo della saga e di adattarla alla contemporaneità, non più per permettere allo spettatore di osservare gli eventi, bensì di viverli.
Così quest'immagine sporca, instabile, diretta, traduce un mondo a pezzi, senza controllo, vissuto nel caos della sopravvivenza.
La narrazione, quindi, è guidata più dalla tensione emotiva e dalla necessità di reagire immediatamente agli eventi, piuttosto che da una costruzione visiva ordinata, razionale o riflessiva.
Le sequenze si susseguono in modo febbrile, istintivo, seguendo l'urgenza dei personaggi (e di un mondo che crolla) e non attraverso uno sviluppo classico.
Ciò che conta è l'impatto, l'adrenalina, la sopravvivenza minuto per minuto, con un montaggio che sembra correre insieme ai personaggi.
Quello che in 28 giorni dopo era un uso povero ma espressivo del digitale (quasi da "guerriglia filmmaking") in 28 anni dopo diventa una scelta stilistica consapevole, che conserva lo sporco e il ruvido, ma con strumenti aggiornati. È un digitale che non nasconde la sua natura, ma la trasforma in linguaggio, e nel farlo riesce a mantenere quell'effetto di disorientamento e realtà "scomposta" del primo film.
C'è inoltre l'idea di un mondo che non cerca più salvezza, né spera in un futuro migliore. Non esiste più la tensione verso una redenzione morale o collettiva. Qui, l'umanità appare disillusa, rassegnata, e persino attratta dalla propria rovina.
I personaggi adulti non hanno più risposte, si limitano a incoraggiare un ragazzo che, paradossalmente, è l'unico a doversi immaginare un domani.
La civiltà non cerca una via d'uscita: convive con il disastro, lo assorbe, lo accetta, e ci si aggrappa quasi con compiacimento, e la desolazione non è più un trauma da superare, ma una condizione permanente.
Quella offertaci da Boyle e Garland è una visione del mondo nichilista e cupa, tradotta nella sporcizia dell'immagine, nella violenza del ritmo, nell'aggressività del montaggio, nell'assenza di consolazione narrativa. Nessuna attesa di rinascita, si vive e si muore nel disfacimento, senza illusioni.
"Memento mori"
"Memento amori"
28 anni dopo (2025): Jodie Comer, Ralph Fiennes, Alfie Williams
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