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Goodbye Dragon Inn

Regia di Tsai Ming-liang vedi scheda film

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La recensione su Goodbye Dragon Inn

di Peppe Comune
8 stelle

In un vecchio e malandato Cinema di Taipei viene proiettato per l’ultima volta un classico del “cappa e spada” cinese, “Dragon Inn”, un film del 1967 di King Hu. La giornata è molto piovosa e un turista giapponese (Kiyonobu Mitamura) vi trova un fortunoso riparo, forse è in cerca di occasionali avventure omosessuali, o forse non sa dove altro andare. La grande sala è quasi vuota e alcuni dei pochi spettatori che si susseguono alle proiezioni somigliano agli attori del film (Jun Shih e Miao Tien). Nel Cinema lavorano un proiezionista (Lee Kang-sheng) e una donna zoppa (Chen Chiang-chyi) che si occupa della biglietteria e della pulizia dei bagni. I due sembrano rincorrersi l’un l’altro, come per sconfiggrere le rispettive solitudini. Ma in quel grande spazio vuoto dove si sente solo il sonoro del film, non si incontrano mai.

 

 

 

Se c'è un autore nel panorama internazionale capace di restituire al Cinema quella matrice contemplativa derivante dalla sua innata capacità di produrre significati anche attraverso il non detto e il non visto, questi e Tsai Ming-liang. Luoghi piani fissi, dialoghi ridotti all' essenziale, messinscena spogliata di ogni accadimento superfluo, fanno la cifra stilistica di un autore che eccelle per il suo sguardo lucido usato come un riconoscibile scandaglio dell’animo umano. In “Goodbye, Dragon Inn”, tutto questo è presente in una misura sobria ma incisiva, come un'opera che intende fare un resoconto sullo stato della propria arte chiamando a raccolta tutti gli ingredienti tipici che la caratterizzano.

Come spesso succede nel cinema dell'autore taiwanese, la vitalità dell’esistenza e soffocata nell’immobilismo delle immagini e nel perdurante mutismo che domina la scena. Infatti, le uniche parole che si sentono solo quelle che vengono dalla proiezione del film (ci sono solo due dialoghi molto fugaci), per un uso diegetico del sonoro che fa entrare il rapporto simbiotico che guarda con chi è guardato, l'esperienza in sala che può anche prescindere dalla passione specifica per il cinema, con l'arte di fare cinema che non può fare a meno della sala se vuole trasmettere appieno le sue magie. Il protagonista reale del film è appunto una sala vuota di spettatori ma piena di tutte le illusioni che ha la possibilità di ospitare, uno spazio votato all’abbandono e che ci impiega meno di un attimo ad illuminare la platea deserta con un fascio di storie filmate. A dominare è il rosso delle poltroncine, spesso riprese in campo totale per risaltare il fatto che lo spettacolo va avanti per la sua strada anche se ad assisterlo ci sono pochi spettatori. Perché “Goodbye, Dragon Inn”, insieme ad essere un omaggio al Cinema fatto attraverso il modo che meglio lo connota come arte “giovane e nuova” (come usualmente fa Ming-liang), è un omaggio alla sala come luogo dove l'esperienza cinematografica viene vissuta come un momento di soddisfacente appagamento dei sensi. A dimostrarlo non è il linguaggio inequivocabile del corpo, catturato mentre è soggiogato da emozioni presenti a se stesse, ma l'assenza di qualsiasi cosa che non sia subitamente riconoscibile come un'esperienza visiva che solo la sala cinematografica può offrire. Perché un film visto in sala rappresenta sempre un’esperienza da vivere nella sua irripetibile unicità emozionale. I film non sono mai uguali l’uno con l’altro, e ognuno è capace di architettare incontri inaspettati con la verità dei propri sensi.  

Tsai Ming-liang porta in Cinema dentro la sua vita e fa della vita un oggetto filmico che può arrivare a confondere chi è partecipe della realtà è ciò che rimane sostanza fantastica. Tratta anche ironicamente questo aspetto, giocando con l'aria palesemente straniante del ragazzo giapponese, che oscilla tra le ambigue pulsioni sessuali e lo stupore panico nel vedersi al fianco di persone del tutto somiglianti ai personaggi del “cappa e spada” trasmesso sul grande schermo. È attraverso i suoi occhi confusi che il film gioca per confondere il senso del reale con il realismo della fantasia. È attraverso il suo fare disorientato che i personaggioche di volta in volta popolano la grande sala ci appaiono, o come dei fantasmi usciti da un film di più di quarant’anni prima, o come degli attori venuti a godersi l'ultimo spettacolo. Altri elementi stranianti sono il proiezionista e la bigliettaia, una donna zoppa che la macchina da presa segue come a volerne assorbire tutta la lenta andatura. I due sembrano cercarsi senza riuscire mai a trovarsi, persi nella grande sala come imbrigliati in un labirinto senza fine : tra i bagni fatiscenti, dove si consumano fugaci incontri clandestini, e lo splendore ormai ingrigito della platea. Due anime solinghe che mostrano di avere con la sala cinematografica un rapporto totalizzante, come votati ad una missione rituale che deve essere portata a termine. Come dimostra il bellissimo finale, che ritrae la donna zoppa sfidare la pioggia scrosciante dopo aver dichiarata chiusa un’altra giornata di proiezioni. Ad accompagnare il suo passo claudicante c’è una canzone struggente che inonda l’aria. L’uso del sonoro è extradiegetico questa volta, mentre la messinscena  piovosa sembra fare l’occhiolino ai film degli anni trenta. Il Cinema accompagnato con i suoi caratteri più rassicuranti si riprende la scena, e senza equivoci di sorta questa volta. Sempre ottimo Cinema con Tsai Ming-liang.

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