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Twentynine Palms

Regia di Bruno Dumont vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Twentynine Palms

di ed wood
6 stelle

Quando uscì, oramai un decennio fa, spaccò la critica in due: da una parte, ci fu chi lo sbeffeggiò, irritato dalle improvvise e sgradevoli esplosioni di sesso e violenza, dai tempi catalettici più che morti, dall’inazione dei personaggi; dall’altra, chi ne esaltò la capacità di Dumont di cogliere sensazioni forti e molteplici dai pochi mezzi e dalle essenziali immagini, facendo emergere l’invisibile dal visibile. Credo che la verità stia nel mezzo, o meglio: altrove. A me questo "29 palms" è parso un aggiornamento perverso ed estremo del "cinema dell'incomunicabilità" di Antonioni ("L'avventura", "L'eclisse", "Zabriskie Point") o anche del road-movie dell'alienazione di Monte Hellman ("Strada a doppia corsia"). Queste indubbie referenze stilistiche e tematiche frenano un po' quella che è la tipica spinta innovativa ed eversiva del linguaggio dumontiano. Sia chiaro: "29 palms" non è certo uno sterile revival del cinema d'autore esistenzialista dei 60's e dei 70's; ma non è nemmeno l'opera più potente e riuscita di Dumont. La sua ricerca di emozioni epidermiche, di uno sguardo "sensoriale", di un'estetica dalla fisicità così insistita da trascendere in una forma laica ed umanissima di misticismo avrebbero trovato una forma più compiuta nei maturi "Hadewijch" e "Hors Satan", opere complesse in cui si articola un difficile e controverso discorso (limpido nel primo film, un po' più opaco nel secondo) sulla morale/ragione e sul loro superamento. In "29 palms", nel suo dichiarato pauperismo, nella sua premeditata riproduzione del tedio di una qualsiasi routine di coppia (con risate, pianti, litigi, pasti, scopate), nel suo sapiente studio della collocazione della figura umana in rapporto al paesaggio, nella costituzionale rarefazione del plot e dei dialoghi si accoda alle conquiste del cinema modernista on-the-road sopra menzionato. Ciò che impedisce al film di cadere nel noioso ricalco di un cinema che ha fatto il suo tempo sono quelle brusche sterzati, quagli strappi, quelle insistenze e soprattutto quella dimensione misteriosamente avvolgente che ci ricorda che dietro la mdp non c'è un clone di Antonioni fuori tempo massimo, ma un autore capace di scuotere l'immagine filmica dal torpore del "già visto" e, con essa, le certezze dello spettatore. La nota fondamentale, cifra estetica dell'intero film, è il boato della violenza brada e della sensualità dei corpi che irrompe nel silenzio/vuoto della natura e delle anime. Tutte le scene di sesso mettono a disagio e non trasmettono mai la sensazione di piacere, di armonia, di amore fra i due protagonisti: quelle girate in piscina disturbano per il fatto che la ricerca dell'orgasmo è sempre stimolata/minacciata dal rischio di affogare. Ma soprattutto, e questa credo sia la chiave per "entrare" nell'opera, nel corso del film ci sono tre inquadrature pressochè identiche per taglio, durata, urla e smorfie dei personaggi: cambiano solo questi ultimi e il contesto. Nelle prime due ci sono gli amanti che godono brutalmente in due dei loro svariati amplessi; nella terza invece c'è un balordo che sta sodomizzando il protagonista. Dumont riprende passione e violenza allo stesso modo: ciò che conta sono gli istinti ferini, essenziali, primordiali, pre-razionali. Per il resto, è un film di alti e bassi, di cose già viste alternate a scossoni tellurici, trovate poco brillanti (il cane monco "miracolato"; il finale grottesco) che bilanciano altre più suggestive (il disegno dei corpi nudi sulle rocce ardenti; ma soprattutto il senso di terrore esperito da Katia e trasmesso allo spettatore, quando ella resta sola nella notte del deserto californiano, nascosta dietro un camion mentre un'automobile viene, forse, a cercarla). "29 palms" è la materia grezza con cui Dumont avrebbe plasmato i suoi capolavori.

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