Non particolarmente sorprendente ma onesto perché ben girato, con rimandi a The Road, Il primo re è Waterworld. La scelta dell'assenza di dialoghi è coerente col ritorno dell'uomo a uno stato quasi primordiale, dopo una probabile catastrofe climatica o bellica. Quando l'unico problema è sopravvivere, le parole non servono.
USCITO IN ITALIA NEL SETTEMBRE 2025
VISTO IN STREAMING SU PRIME VIDEO NELL'OTTOBRE 2025
Un piccolo film post-apocalittico che, pur con mezzi limitati, riesce a dire più di tante produzioni ad alto budget. In un mondo devastato da piogge tossiche, dalla vegetazione rinsecchita e da un cielo perennemente grigio, un giovane e un uomo più anziano lottano per sopravvivere tra boschi, rovine e stagni colmi di pesci morti. Niente di particolarmente originale nella premessa, ma ciò che colpisce è il tono: asciutto, quasi documentaristico, intriso di silenzi e di un realismo che sfiora la brutalità.
Nell'opera filmata dall'informatico londinese Ben Goodger (noto per il suo lavoro su browser come Firefox) la parola è bandita. Il regista esordiente rinuncia ai dialoghi e trova la sua forza proprio in questa scelta radicale: quando l’uomo torna a una condizione primordiale, il linguaggio diventa superfluo. La sopravvivenza è puro istinto, gesto, respiro, fame. “Se non c’è niente da dire, meglio stare zitti”, sembra suggerire il regista. Una frase che racchiude il senso più autentico della sua opera prima (e chissà se ultima... ). L'unico attore noto è il protagonista della vicenda, l'inglese Duncan Lacroix, caratterista noto soprattutto per ruoli in film storici e serie tv come Vikings. Al cinema l'abbiamo scorto in produzioni importanti quali I fratelli Sisters (2018), Outlaw King - Il re fuorilegge (2018). Spesso scelto per ruoli intensi e fisici, con una presenza scenica marcata, qui ha il suo primo ruolo di primo piano e non sfigura.
Il basso livello di unicità non è un difetto di per sé, se non è alterato da finzioni o compromessi. Il riferimento inevitabile è aLa strada di John Hillcoat, con la sua visione cupa di un mondo ridotto all’essenziale e al cannibalismo. Ma ci sono echi anche de Il primo re di Matteo Rovere, per il rapporto fisico con la natura e per il silenzio che diventa linguaggio universale. E, in un passaggio emblematico, il film cita implicitamente Waterworld di Kevin Reynolds, uscito trent’anni fa, mostrando i protagonisti intenti a distillare l’acqua dalle proprie urine per ottenere un liquido potabile. Un espediente già visto, certo, ma perfettamente coerente con l’atmosfera di disperata sopravvivenza.
Tecnicamente il film regge bene: la fotografia è curata, con una luce livida e coerente e la regia mostra mestiere, quando alterna piani fissi a movimenti lenti e calibrati o alle scene di azione pura. La colonna sonora, dominata spesso da tamburi e sonorità tribali, accompagna senza invadere. Solo la parte centrale della narrazione filmica si concede qualche autocompiacimento visivo e un ritmo troppo lento, ma nel complesso l’attenzione non cala. Year 10 – Sopravvivenza letale non inventa nulla, ma funziona. È crudo, coerente e onesto nel suo raccontare la fame, la paura e la solitudine dell’uomo dopo la fine del mondo. Con una lieve speranza di rinascita, quando nel finale il protagonista nota dei fiori appena sbocciati su un albero da frutta. Non lascia il segno, ma resta in piedi. E oggi non è poco.
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