Regia di Kiyoshi Kurosawa vedi scheda film
Cloud racconta la storia di Ryusuke Yoshii (interpretato da Masaki Suda), un uomo che lavora in una fabbrica e conduce una vita ordinaria. Stanco della sua routine, Yoshii inizia a rivendere online dispositivi medici contraffatti, acquistati a basso costo e rivenduti a prezzi elevati. Con i guadagni ottenuti, lascia il suo lavoro e si trasferisce in una casa più grande, utilizzandola come ufficio e magazzino. Assume anche un assistente, Sano (Daiken Okudaira), per aiutarlo nella gestione dell'attività. La sua fidanzata, Akiko (Kotone Furukawa), si trasferisce con lui, ma la relazione si deteriora a causa della crescente ossessione di Yoshii per il lavoro. Quando i clienti e i fornitori truffati iniziano a unirsi online per vendicarsi, Yoshii diventa il bersaglio di una vendetta collettiva che culmina in un atto di violenza.
L'ultimo film di Kiyoshi Kurosawa è una sorta di parabola techno-horror che si muove silenziosamente per poi esplodere nelle sue battute finali, e coglie in pieno lo stile narrativo che il maestro del J-horror ha spesso usato nei suoi film: una tensione sorda e sotterranea che cresce lentamente, senza clamore, fino a diventare inquietudine pura.
Il protagonista, Yoshii, agisce online con la maschera di Rattel, protetto dallo schermo. Ma quella maschera diventerà la sua condanna.
Kurosawa sembra dirci che la rete non è un rifugio sicuro, ma una trappola che registra, archivia e può restituire tutto, con gli interessi.
"Persone come noi continuano ad affollarsi intorno a Rattel, come nuvole nel cielo".
Questa frase, pronunciata da un cliente del protagonista, è quasi un presagio karmico. È come se lo spazio digitale non fosse davvero vuoto o astratto, ma un luogo reale, popolato da identità, rancori e vendette.
Il grande paradosso, sembra dirci Kurosawa, è che più siamo connessi, più ci sentiamo distanti.
E il regista costruisce questa condizione con la solita, abilissima freddezza impassibile e distaccata, spezzata solo nei momenti più violenti e drammatici.
Il titolo "Cloud" si presta a una doppia lettura: da un lato, richiama il sistema informatico in cui Yoshi archivia e gestisce la sua attività; dall'altro, evoca la minacciosa immagine di una nuvola che si addensa sopra la testa del protagonista, pronta a scatenare una tempesta.
Quella a cui assistiamo è una parabola disturbante sulla falsa sicurezza dell'anonimato online.
Le azioni compiute dietro uno schermo sembrano disincarnate, senza peso, eppure hanno conseguenze reali, spesso irreversibili. Yoshi, all'inizio, appare come un cinico imbroglione, ma progressivamente ci viene mostrato il suo lato più fragile e umano: non è il profitto a guidarlo, ma una forma di noia esistenziale, un desiderio confuso di provare qualcosa, qualsiasi cosa.
Come in Cure o Kairo, anche in Cloud Kurosawa costruisce il terrore attraverso l'astrazione, l'ambiguità, il fuori campo.
I momenti più spaventosi non sono quelli apertamente violenti, ma quelli in cui la quotidianità si deforma impercettibilmente. Il volto di Yoshi, inquadrato con insistenza e staticità, si apre al conflitto tra la sua tranquillità apparente e l'angoscia crescente.
Ogni rumore, ogni sguardo, ogni automobile che passa potrebbe essere il segnale di un'aggressione imminente.
La macchina da presa indugia su dettagli apparentemente banali — un computer che si aggiorna, un volto che guarda — ma Kurosawa li carica di una tensione latente. Il vero orrore non è ciò che vediamo, ma ciò che potrebbe accadere in qualsiasi momento. E quando la violenza esplode, lo fa in maniera fredda, senza enfasi, come se fosse la conclusione logica di un processo già innescato.
La regia di Kurosawa è più asciutta che mai. Ogni inquadratura è misurata, essenziale, priva di orpelli. Non c'è musica a guidare le emozioni, non ci sono spiegazioni inutili. La narrazione avanza come una spirale che si stringe lentamente intorno al protagonista. Il ritmo, apparentemente lento e ripetitivo, è in realtà una costruzione meticolosa di angoscia.
In questo senso, Cloud può essere letto come una risposta aggiornata ai suoi film precedenti. Se Pulse parlava del suicidio collettivo generato dall’alienazione digitale, Cloud affronta un tema più vicino alla contemporaneità: la vendetta collettiva che può colpire chi ha approfittato della rete per ingannare il prossimo.
Qui non ci sono fantasmi. Il male è umano, concreto, sociale. Nasce dall’insoddisfazione, dal risentimento, dalla solitudine, dalla vendetta. Quanto siamo davvero al sicuro dietro lo schermo? E quanto è sottile il confine tra la realtà e la nostra identità online? In un’epoca in cui ogni azione compiuta lascia una traccia, la vera domanda non è più “che cosa può succedere?”, ma piuttosto: “chi sta guardando?”.
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