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E Johnny prese il fucile

Regia di Dalton Trumbo vedi scheda film

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La recensione su E Johnny prese il fucile

di EightAndHalf
8 stelle

In che misura l’ira e lo sdegno da indignazione possono giustificare manicheismo, un certo vittimismo e (per eccedere in –ismi), eccezionale pessimismo? Quando nessuna delle tre forme esagera o risulta accomodante, semplificante, ridondante. Ecco forse la risposta ai numerosi dilemmi che pone E Johnny prese il fucile, che nel suo andamento da americano contro l’America (che pure non ha lontano Altman o altri indipendenti) sembra addirittura lanciare all’occhio attento sprazzi ineccepibili di fellinismo, mal celato ma presente in certi movimenti, in certi topoi, in certe associazioni mentali. Probabilmente perché sul vero flusso di coscienza causale e filosoficamente necessario, quello teso al raggiungimento di un obbiettivo non subito chiaro, Fellini ha detto tutto e ha esteso fin troppo i suoi sguardi per risultare ininfluente anche nell’autore che più gli è lontano. Eppure ridurre E Johnny prese il fucile ad una ripresa di Fellini o un semplice film antimilitarista sarebbe riduttivo, oltre che pedante. Ciò che invece è interessante è il curioso parallelo che il film elabora tra corporeità e pensiero, ragione mentale e irrazionalità bellica, incomunicabilità e speranza. Se inizialmente l’alternanza di b/n e colore sembra schematica, rigida e superflua, lentamente essa rivela la divisione netta ma non così ovvia fra i momenti in cui lui è bloccato nello stato terribile che gli ha procurato una bomba durante la Prima Guerra Mondiale, ovvero privato di arti superiori e inferiori nonché di fattezze visive come occhi, naso e bocca, e i momenti in cui la sua mente viaggia fra i ricordi e le fantasie, le assolutizzazioni fantasmatiche del suo inconscio (che lo porteranno a una scansione temporale difficile da assimilare alla scansione oggettiva e cronologica, ma più vicina a percorsi interiori e personalissimi) e le disillusioni religiose che pure l’ironica figura cristologica di Donald Sutherland desta nel momento in cui, in un momento di confusione fra sogno e realtà, lo stesso Cristo appare disilluso, a sua volta, nei confronti di una Fede poco elaborata e poco apprezzata dall’uomo, benché, ammetta, lui stesso sembra essere diventato reale solo perché “fin troppo sognato”, in un certo senso. Questo incredibile giro per dire infine che il pensiero vive tanto quanto il corpo e che esso elabora in maniera colorata ma sofferta gioie e dolori, comprensioni e dubbi del passato, stimoli freschi e giovanili che rincorrevano un Sogno Americano (Uncle Sam non si vede ma c’è sempre) evidentemente artificioso e alienante. Un pensiero, dunque, che è flusso di pensiero ma è anche logica creativa, elaborazione esistenziale, potenza ontologica, tanto che, nella loro evanescenza, nelle immagini a colori, nel bene e nel male, sembra che “si viva” di più, anche se nella disillusione. E ancora, se la guerra sembra estesa e al contempo implosa nella camera in cui si trova il protagonista, che lotta con se stesso, i suoi limiti corporali e l’eccezionale debordare dei suoi pensieri frementi, essa è anche causa fondante di quell’incomunicabilità corrotta e paradossalmente ricercata che attuano praticamente i militari che, vogliosi di non far scoprire la verità sulle varie cause del militarismo, nascondono il protagonista in quella stanza e lo “condannano” a rimanere in vita, nelle condizioni più malsane e sconvolgenti (nonché particolarmente ansiogene per lo spettatore). Tanto che sarà addirittura il sacerdote a distanziarsi dalle volontà del sergente in questione, e ad affermare che non potrebbe mai mettere il suo benestare, in una rinuncia che non ha del ponzio-pilatesimo, ma del coraggioso, dell’ambiguo, del problematico: Trumbo, nella sua furia distruttiva pure controllata in tanta maestria cinematografica, non generalizza, e ammette pure la dignità della religione nell’assurdità di una realtà di guerra e di alienazione. Tra madri credenti, padri incapaci di spiegare la democrazia e fidanzate minute che si fanno sognare nei contesti più chiassosi (e felliniani), Trumbo rivela un’eccezionale abilità nel gestire argomenti scottanti e “generali” come l’assurdità della guerra, e argomenti più tipicamente artistici, come il disagio esistenziale, la distanza tra gli esseri umani all’inizio (e nello svolgersi) del XX secolo, l’incredibile insofferenza di due generazioni a confronto e in conflitto, moti che rivolgono l’umanità verso l’autodistruzione più apocalittica. Pure simboli e allegorie non si fermano, e destano annichilenti l’attenzione dello spettatore, mai abbastanza cauto per cogliere tutto (dal contraddittorio e spiacevole “primo amorevole assaggio” nel letto della fidanzata, con lo squallido ma sarcastico benestare del padre di lei, alla volontà di essere esibiti in un circo, come a voler ricercare l’ostentazione della assurdità militarista ma al contempo una sorta di destino autopunitivo che pure espia la scelta ingenua e volenterosa di andare effettivamente in guerra e soccombere alla propria ingenuità, fino al ricevimento di paese, in cui il capo ripete continuamente la stessa formula tronfia e ridicola e tutti quanti ballano godendosi i loro begli arti e il loro bell’[assente] pensiero), ma quegli stessi simboli e allegorie, sempre straordinariamente coerenti, da un lato sembrano solo parzialmente appesantire esageratamente la pellicola, dall’altro sembrano destinare l’intera opera a qualcosa che è più vicino alla letterarietà che alla forma cinematografica, ché le trovate visive ci sono e abbondano, ma non sono davvero mai palpabili e capaci di rendere l’idea dell’immenso mondo teorico che sta, evidentemente, nelle intenzioni di Trumbo. Così, tra sbalzi e notevoli conclusioni, E Johnny prese il fucile vanta una struttura abbastanza disturbante (nella maniera più diretta, primordiale, quasi grossolana) e induce a un malessere che pure è fatto di vittimismo ma ha il coraggio di andare fino in fondo e dare spazio a una voce che pure nel ’71, in cui fino a poco prima impazzava il conflitto vietnamita, poteva essere realmente utile per (ri)scaldare le coscienze. Filosofico e pratico, ibrido insolito e indimenticabile.

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