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Dogville

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su Dogville

di EightAndHalf
8 stelle

Il film più letterario e intelligente di Lars von Trier, un remake postmoderno di "Freaks" con alta dose di cattiveria (ma il capolavoro di Tod Browning non era da meno, nonostante il 1932), in cui la provocazione si riduce rispetto alla grande ispirazione registica. Incompreso da molti, tacciato come uno delle tante provocazioni del regista danese, in realtà è il film dove ha messo più in gioco sé stesso (ma senza autoironia, come farà ne "Le cinque variazioni"), e ha cercato di smascherare l'intera umanità. Riflettendo sul ruolo fra singolo e comunità, e sulla tendenza alla massificazione istintiva degli abitanti del piccolo paesino di Dogville, von Trier spoglia una (tanto odiata) temibile America da qualunque scenografia, la rende un palco immerso nel buio, a ben pensarci straordinariamente inquietante, e se non per alcuni oggetti di scena, il "palco" è completamente spoglio, i limiti delle case sono delle linee bianche che sembrano tanto il contorno di un cadavere gigantesco, forse l'intera civiltà.
Per molti la qualità di Dogville inizia e finisce nella bizzarria di questa trovata, ma è in realtà il vertice della genialità di von Trier, che ha sempre conosciuto i suoi personaggi e ha saputo odiarli e mai salvarli, a volte compatirli (il che è diverso da salvare) di fronte a una realtà terribile, che qui, implicitamente normale, sembra essere stata attraversata da un'Apocalisse. L'assenza delle pareti va di pari passo con l'assenza di valori civili e sociali, perduti per strada, durante un processo di civilizzazione all'indietro, che ha portato all'intolleranza e alla tendenza alla violenza. Senza moralismo, ma accusando assai acremente, il regista utilizza l'"assenza" per riempire il film di qualcos'altro, di un significato che raramente nel cinema è stato così in linea con l'estetica, qui ridotta all'osso: spoglia le certezze, come l'intimità della casa, il rifugio della casa, il "nascondiglio" della casa.. La trasformazione di qualcosa di così importante e salutare in un'agghiacciante tana di lupi (la scena dello stupro, posta di fronte a tutti, ma separata dagli altri dai muri invisibili, spaventosamente indimenticabile), in cui covano miserie e frustrazioni pronte a colpire lo straniero, il diverso, il misterioso. L'irrazionalità del cinema, in particolare di quello del regista, respinta fuori, attaccata a una catena, prima accolta e riverita, poi conosciuta meglio e allontanata. E la vendetta, che porta il regista a un'autoaccusa/autocelebrazione ai massimi livelli: il male del suo cinema è un male necessario, scacciarlo vuol dire farsi ancora più male, non comprendersi. Tale affermazione, di grande superbia, è in linea con il suo cinema, che con calma e con una grande dose di malvagità effettivamente ci colpisce, ci "svela", come ci svelava la drammaticità profonda di "Dancer in the Dark", e ci fa alla fine apprezzare tale coraggio di imporre sé stesso, in un mondo del cinema che deve imparare ad osare. Oltretutto non c'è solo superbia in questa presa di posizione di von Trier, così maniacale, ma anche un atto in linea con la tecnica narrativa: il narratore è di natura onnisciente, perché vede tutto, e visto che crea tutto, è anche onnipotente. La capacità dell'arte di creare e distruggere (in questo caso ciò che era già distrutto) sottintende un grande delirio di onnipotenza da parte di qualunque artista, e la presunzione di von Trier in questo senso così profondamente metacinematografico/metaartistico appare paradossalmente coerente. La Kidman così diventa l'attrice perfetta, il cinema sgradevole ma in realtà vittimistico di von Trier, una straordinaria musa di ispirazione, nel film rispettata nonostante le cadute, le sofferenze e una goduta vendetta. Uno sfogo per la mente, che ci fa capire quanto il cinema, dopotutto, dev'essere vissuto spogliandoci di ogni ipocrisia, e ammettendo le nostre più profonde morbosità. Un'esperienza indimenticabile, da vivere nella versione integrale di 3 ore assolutamente. Peccato che il seguito, "Manderlay", risulti più debole, benché discreto; ancora più peccato che di "Wasington", finale ideale della trilogia, von Trier non ne abbia fatto nulla.

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