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Alle cinque della sera

Regia di Samira Makhmalbaf vedi scheda film

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giancarlo visitilli

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Alle cinque della sera

di giancarlo visitilli
8 stelle

Non sarebbe male se i nostri parlamentari si accorgessero dell’uscita di questo film, dopo il vergognoso episodio accaduto giorni fa in Parlamento, con le “solite” (donne) italiane “zoccole”, sempre a reclamare i loro diritti, questa volta messi per iscritto sulle magliette. Sarebbe interessante capire il punto di vista dei nostri Uomini (che gli si riconosca la superiorità!), una loro impressione, che sicuramente non smentirebbe quel maschilismo made in Italy, a riguardo di Alle cinque della sera, film Gran Premio della Giuria a Cannes 2003, della 23enne regista iraniana Samira Makhmalbaf, essendo una donna la protagonista di tutta la storia.
Già con La mela e Lavagne, la giovane figlia di Moshen Makhmalbaf (Viaggio a Kandahar), ci ha raccontato storie di donne, desiderose di liberarsi, non tanto dal chador o dal burqa, quanto dallo stato di sottomissione e denigrazione a cui ogni giorno vengono sottoposte.
L’operazione di Alle cinque della sera, titolo preso in prestito da un celebre componimento di Lorca, risulta ancora più interessante, perché in realtà si tratta del primo film girato in Afghanistan, dopo la caduta del regime dei talebani e l’ultima fase della farsa-operazione “Enduring Freedom”, una sorta di colonizzazione tutta Occidentale di quelle terre, insieme alla scomparsa del mullah Omar. Tutto ciò, se da una parte ha portato alla riapertura delle scuole per i bambini, ma anche per le bambine, che vanno nella stessa classe di ‘quelle’ che hanno 20 anni, dall’altra non ha portato un minimo cambiamento alla condizione in cui ancora oggi le donne afgane sono costrette a vivere, col desiderio utopistico di diventare un giorno medico, ingegnere, o altro ancora, come nel caso di Noqreh, la giovane protagonista del film.
Figlia di un anziano carrettiere, la giovane donna ha un sogno nel cassetto: diventare Presidente della Repubblica; ma la vita le proporrà altro: la fuga da Kabul insieme agli ultimi suoi parenti. Di qui comincerà il viaggio di un padre, di sua figlia, una nuora e un bambino.
Un viaggio fisico (tra le rovine di una guerra non ancora alla fine) ma anche metaforico (la discesa verso un futuro privo di prospettive), spirituale (la ricostruzione interiore che ogni afgano, uomo o donna, deve cercare di operare), ma soprattutto materiale (la ricerca di un posto dove passare la notte).
Tra un rifugio ed un altro, tra cui lo scheletro di un aereo sventrato da un razzo, impariamo a conoscere una galleria di personaggi, tutti profughi per condizione esistenziale, assurdi, ma verissimi, dai volti solcati dalle pesanti rughe del dolore, drammaticamente attaccati alla vita e alle loro piccole, povere, preziosissime cose. Sono uomini, donne, bambini e vecchi, anime disperse, disorientate sull'orlo di una crisi etica e morale, che non riconoscono più i confini della loro realtà. Tra queste rovine materiali e morali, però, c'è ancora spazio per i sogni, per i desideri, per i progetti, per la poesia. Anche per la politica dal basso: come quando Noqreh tenta di farsi suggerire da un soldato francese il discorso con cui Chirac ha convinto gli uomini del suo paese a votarlo: il desiderio di imparare una falsa retorica, che è fatta d’inganni, di cui anche noi, italiani, occidentali, ci siamo imbevuti.
La protagonista così trova la voglia e il coraggio di reagire ad una società che la vorrebbe confinata in un ruolo troppo angusto: calzando un paio di scarpe bianche con il tacco (chissà cosa potrebbe far venire in mente ai parlamentari di cui sopra), segno di un’utopica fuga, se messe in confronto a quelle nere di pezza; andando a scuola; facendosi ritrarre nelle foto, che gli serviranno per la campagna elettorale. Insomma, reclamando il suo diritto ad essere donna, per giunta impegnata.
Alle cinque della sera è il film visivamente più bello di Samira Makhmalbf, soprattutto per la densità delle immagini, per le inquadrature compositivamente troppo esatte e geometriche. Quanto a perfezione, Samira non si risparmia neanche nell’uso del colore: ora l’azzurro intenso dei veli delle donne, in contrasto con il nero, che fa da cornice alle inquadrature dei notturni. Il montaggio è opera di papà Mohsen. Insomma, uno stile di perfezione che, se da una parte ci dà l’idea di come la “geografia del cinema” (volendo parafrasare il titolo del bellissimo libro di Bruno Fornara) non segua “la mentalità mondana”, dall’altra tolgono a Makhmalbaf figlia, quell’immediatezza e primitività che l’avevano caratterizzata in altri lavori.
Il finale del film è di una bellezza escatologica d’infinita ricchezza, ogni personaggio ha ricevuto dalla vita il suo giogo: la madre quello della morte del figlio a cui non ha potuto più dare il suo latte, Noqreh il peso di un animale (proprio come l’uomo) stanco di vivere, l’anziano il peso della memoria, di cui ben presto si libererà per mezzo di un fuoco che estinguerà ogni desiderio di vita, al rumore di elicotteri e aerei provenienti dall’Ovest.
Una nota stonata del film è il doppiaggio, con la voce degli attori, che dall’inizio alla fine ha la stessa intensità, non importa se si muore o se si rida (e ce n’è motivo nel film), tutto appare di una piattezza fuori norma. Quando non si doppieranno più i film in Italia, un valido motivo questo per eguagliarci all’Europa?
Alla fine potremmo solo immaginare le reazioni dei nostri maschilisti, magari discutendone in Parlamento: grideranno che le donne afgane sono più “zoccole” di quelle italiane, meno belle delle “segretarie italiane”? Ancora una volta penseranno “di stare in onda e non in aula”, come ha scritto Massimo Rebecchi qualche giorno fa in un editoriale.
Giancarlo Visitilli

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