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Il trono di sangue

Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film

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La recensione su Il trono di sangue

di yume
10 stelle

“Ho dimenticato Shakespeare e ho girato il film come se fosse una storia del mio paese” dichiarò Kurosawa,ed è infatti il Giappone del XVI secolo il teatro della corrusca vicenda, lo scenario in cui i personaggi si muovono seguendo il ritmo lento e ieratico del teatro NO

La tragedia del “beccaio morto e della sua demoniaca regina” è ancora una volta occasione per parlare delle profondità insondabili dell’animo umano, della sete di potere e della solitudine che ne è la condanna, dell’ambizione  e della paura, dell’esaltazione e della caduta nella voragine della follia.

 “Ho dimenticato Shakespeare e ho girato il film come se fosse una storia del mio paese” dichiarò Kurosawa,ed è infatti il Giappone del XVI secolo il teatro della corrusca vicenda, lo scenario in cui i personaggi si muovono seguendo il ritmo lento e ieratico del teatro NO, avvolti in costumi di sontuosa maestà, che si tratti delle sfolgoranti armature dei samurai o di preziosi kimono degni di una reggia.

La trama narrativa è tessuta di continui rimandi fra interni ed esterni, lo spazio che circonda i castelli, una landa velata da nebbie lattiginose, nelle quali affondano e poi riemergono senza posa i due guerrieri nella sequenza iniziale, la foresta labirintica, magica protagonista dei momenti chiave della storia e le sale di una corte tenebrosa, spoglia, dove i dignitari siedono immobili e solenni a consiglio o si svolgono dialoghi fatti di brevissime battute, prevalendo invece il gioco degli sguardi e il linguaggio del corpo.

Il sipario si alza su un coro di voci lente, cadenzate come gli anapesti di una tragedia greca, mentre le parole scorrono in sovrimpressione:

Ecco mirate il desolato luogo

ove si ergeva superbo un castello,

in cui le brame ebber selvaggio sfogo

finchè soltanto fu di morte ostello.

Regnò su questa terra che ora langue,

da un furor di potere fatto insano,

un guerriero il cui trono fu di sangue,

ma il trionfo del male è sempre vano”.

 

Taketoki Washizu (Macbeth) e Yoshiaki Miki (Banquo), potenti samurai di ritorno vittoriosi al castello dello shogun, incontrano il loro destino nella foresta degli spiriti, dove la Parca, traduzione delle tre Norne shakespeariane, profetizza un futuro di gloria e potere. Asaji (Lady Macbeth), dirà più tardi le parole che meglio interpretano il valore del presagio, spostandone la lettura dalla sfera del magico a quella dell’indagine sul profondo:

Io penso che sognamo le cose che desideriamo. Qual è quel samurai che in vita sua non ha desiderato di essere signore di un castello?

Come in Macbeth, la donna riveste un ruolo chiave nel determinare il corso delle vicende, le sue argomentazioni perforano come punte di diamante i tentennamenti del marito, il gracchiare sinistro dei corvi diventa argomento a favore del suo piano:

Prendi il trono, è tuo, è questo che ripetono le loro voci. Senza ambizione un uomo non è un uomo”.

La trama diabolica è tutta nelle sue mani, quelle mani che non riuscirà più a detergere nella scena della follia (What, will these hands ne’er be clean?). Il delitto unisce i due sposi in un patto di sangue, come re Duncan anche lo shogun sarà ucciso nel sonno e il potere finirà nelle mani di Washizu.

Il presagio si sta avverando, ma con esso anche il suo inganno, perché l’oracolo è sempre colui che mescola le carte e impedisce all’uomo di ascoltare il suo vero dio, la retta ragione.

Una ragnatela di intrighi avvolge il castello e separa gli sposi (ricordiamo il titolo originale, Il castello della ragnatela).

Si rompe quella simmetria di immagini che ha ritratto l’uomo nella sua bruna e scintillante armatura e la donna dal viso lunare nel serico kimono bianco, avvolti in un movimento circolare, una spirale in cui corpi, gesti e sguardi si sono intrecciati, integrandosi a vicenda.

Ora la scena è percorsa solo dalla furia impotente di Washizu, un grande Toshiro Mifune, a cui Kurosawa ha lasciato carta bianca. La donna scompare, tornerà nella breve sequenza della pazzia, il re è solo e deve continuare senza sosta a macchiare di sangue il suo trono, perché il potere ha questo prezzo.

Kurosawa dà forte risalto al viso di Washizu in continui primi piani che scavano nella sua psiche in disfacimento. Ora a dominare è la paura, dei morti più che dei vivi. Folle di paura Washizu corre nella foresta, evoca lo spirito, cerca l’ultimo inganno (val la pena di sottolineare  qui l’identità con l’originale: “Macbeth non verrà mai sconfitto finché il grande bosco di Birnan non avanzi verso l’alto colle di Dunsinane contro di lui” )

Nella sequenza finale i corvi irrompono nella reggia, creature impazzite in fuga dai nidi. Gli alberi arrivano fin sotto il castello, in una memorabile ripresa dall’alto delle chiome ondeggianti fra nuvole gonfie di nebbia.

La profezia così si compie, l’uomo ha misurato le sue deboli forze e le sue devastanti miserie di fronte ad un Fato ineluttabile

 “… colui che un dio vuol perdere, prima fa impazzire” recita il coro nei Persiani di Eschilo

 “… ma il trionfo del male è sempre vanoil coro fuori campo intona di nuovoil canto di apertura.

 

 

 

 www.paoladigiuseppe.it  

 

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