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I lunedì al sole

Regia di Fernando León de Aranoa vedi scheda film

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La recensione su I lunedì al sole

di FilmTv Rivista
8 stelle

Si può sorridere senza avere un lavoro? Santa, José, Lino e Amador ci provano. Nel bar di Rico, ex compagno di fabbrica costretto a reinventarsi la vita dopo il brutale licenziamento. Gijón, Galizia, Nord della Spagna: i lunedì non sono più i primi giorni di settimane spese intorno a un tornio o con un trapano in mano: sono i nuovi incipit di nuove, “inutili” esistenze bighellonate e bighellonanti. Santa, “leader” quasi suo malgrado, è incazzato nero perché, oltre a essere stato cacciato, i padroni gli chiedono pure il risarcimento di un lampione mandato in frantumi durante i giorni della lotta e degli scioperi; vive solo, in una modestissima stanzetta di una pensione, ogni tanto una prostituta, quando capita qualche espediente (fa il babysitter sostituendo di nascosto la figlia di Rico in una lussuosa villa con piscina: una delle scene più felici del film). José è sposato con Ana ed è lei ora che porta i soldi a casa, umiliandosi a tempo determinato in una ditta che inscatola pesce (e infatti è ossessionata dal suo odore). Lino non si dà per vinto e partecipa a numerosi colloqui tentando di rilanciarsi “travestendosi” da giovane, ma il mondo del lavoro che ipocritamente lo accoglie non è più in grado di ascoltarlo. Amador è quello che sta peggio: non rassegnato, intinge la sua sconfitta nell’alcol, vivendo tra i rifiuti accumulati in casa. Santa sogna gli “antipodi” («lì c’è il lavoro qui no, lì si scopa qui no»), José gioca al superenalotto, Lino si tinge i capelli e Amador si getta dalla finestra: di queste “risorse umane” il neocapitalismo ingordo e rampante non sa più che farsene. Al giovane e talentuoso Fernando León de Aranoa (premi a valanga per ciascun’opera realizzata, sia corta, lunga o documentaria), preferito in patria e agli Oscar all’Almodóvar di Parla con lei, interessano le piccole grandi sporcizie che si insinuano nelle intercapedini delle società occidentali post-industriali (ma vien voglia di dire, viste le brutture, post-atomiche), tanto è vero che i “fatti” o sono fuori campo (il suicidio di Amador, i colloqui di Lino…) o sono già accaduti (i licenziamenti, la più che probabile storia d’amore tra Ana e un collega). Interessano la capacità di resistenza umana, il valore etico dell’unità («Abbiamo perso - dice Santa – perché non siamo rimasti uniti; e perdendo il lavoro abbiamo ucciso il futuro dei nostri figli»). Con un linguaggio tradizionale ma scarno, che si tiene alla larga dalla retorica, realizza così un film militante e ideologico senza il linguaggio della militanza e dell’ideologia. Più che a un fratello arrabbiato di Ken Loach, si pensa a Guédiguian e alla sua Marsiglia (ma anche al dimenticato film di Pozzessere, Padre e figlio). Si canta Volare di Modugno, si intercettano alcune note di Tom Waits e Trenet e si vedono le partite allo stadio di straforo. Sapida metafora: solo una porta, proprio quella in cui lo Sporting Gijón (finito nel frattempo anch’esso in serie B) non segna mai.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 12 del 2003

Autore: Aldo Fittante

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