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La passeggera

Regia di Andrzej Munk vedi scheda film

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La recensione su La passeggera

di spopola
10 stelle

Munk morì in un incidente stradale il 20 settembre del 1961.
Aveva soltanto 39 anni  e stava ancora lavorando alla realizzazione di questa straordinaria opera (a tutti gli effetti probabilmente il suo capolavoro assoluto) che a causa della sua inaspettata e prematura dipartita, rimase incompiuta e rischiò di non vedere mai la luce.
Fu grazie al prezioso lavoro “ricostruttivo” portato avanti con certosina dedizione dal suo collaboratore Witold Leisiewicz , un impegno delicato e lunghissimo (oltre due anni di appassionata rielaborazione del materiale esistente) se la pellicola riuscì quindi a trovare in qualche modo non solo una forma compiuta per essere rappresentata, ma anche una adeguata “mediazione” della sua struttura  lessicale, che rispettasse l’idea e non tradisse minimamente il pensiero di Munk.
Ci manca in effetti solo lo splendore figurativo della “ripresa cinematografica” di una parte anche importante della storia (e per questo il rammarico è comunque grande), poiché le intenzioni e le implicazioni sociologiche e morali che stanno alla base dell’impianto narrativo, sono rimaste tutte integralmente percepibili, e fra i tanti compromessi  possibili che potevano essere adottati per riempire i vuoti esistenti, quello scelto e utilizzato da Leisiewicz è stato certamente il più interessante e positivo per onorarne lo spirito e il senso, diventando al tempo stesso il commosso, doloroso omaggio dell’allievo al talento del Maestro scomparso, realizzato con la pudica competenza di chi  lo conosceva così bene da riuscire a mantenere inalterato il valore anche “didattico” del lavoro e del “messaggio”, senza mai diventare didascalico o approssimativo.
Onore al merito allora e alla perspicacia “interpretativa”  di un uomo che  per le sequenze mancanti, necessarie per completare la pellicola,  anziché girare in proprio (come sarebbe stato possibile fare) ha invece preferito e deciso di usare solo le foto di scena già esistenti supportate da una voce fuori campo, restando così “integralmente” fedele  a ciò che era e restava di Munk, ma con una non comune capacità di “restituire” un movimento dinamico anche alla staticità di quelle immagini fisse sulle quali spesso scorre  la macchina da presa per rendere più evidenti i particolari o sottolineare qualche dettaglio anche di “contrapposizione” visiva, riconsegnando così proprio alla loro “immobilità”, tutta la necessaria carica drammatica (del resto se si è intuitivamente “inventivi”, si riesce magnificamente ad ottenere straordinari risultati empatici anche con  il  “semplice” utilizzo creativo delle fotografie e ad essere ugualmente “grandiosi”, come dimostra  il quasi contemporaneo, analogo “procedimento” stilistico utilizzato da Chris Marker nell’inquietante La jetée, il suo titolo più celebre e celebrato, che è alla base dell’altrettanto angosciante Esercito delle dodici scimmie di Gilliam).
La passeggera, dolorosa e intensa introspezione nelle anime e “dentro” la tragedia epocale dell’olocausto, rimane quindi uno dei tanti capolavori incompiuti della settima arte che la sorte e il destino ci ha purtroppo impedito di recepire nella sua interezza, ma che abbiamo comunque avuto la fortuna di poter valutare in una differente struttura narrativa, in ogni caso non meno efficace e significativa, proprio in virtù di questo intelligente contributo integrativo.
Quando il regista perse la vita, di quella storia sospesa fra passato e presente impaginata da Munk, erano state portate a termine solo le scene ambientate ad Auschwitz (quelle della rievocazione e del ricordo, tanto per intenderci), silenziose e soprannaturali come un incubo e già di per sé  più che sufficienti per indicare la portata eccezionale dell’opera e la qualità superlativa dell’artista. Mancavano invece totalmente quelle relative al presente (ed è proprio su queste,  che hanno un contrappeso importante e fondamentale, non sono certo semplici inserti aggiuntivi, ma riguardano una parte preponderante e sostanziale del racconto, che si è ricorsi al commento fuori campo e alle immagini fisse).
Tratta dal romanzo omonimo di Zofia Posmysz-Piasecka (autrice anche della sceneggiatura insieme al regista), la storia è ambientata ad Amburgo nei primi anni ’60 (quindi in un periodo  corrispondente a quello in cui la pellicola era in corso di realizzazione). Su una nave in rotta verso il Canada, Liza, una ex SS diventata moglie di un ricco mercante, ha l’impressione di riconoscere in un’altra passeggera che incrocia sul ponte, una delle ebree polacche che erano state deportate nel lager ove aveva prestato servizio di “aguzzina” durante la guerra.  Con questa donna, la tedesca aveva tentato di creare un rapporto, spinta da una relativa attrazione fisica, senza però mai riuscire a piegare la ferma resistenza dell’ebrea. Il film non ci fa però assistere a “incontri” diretti, o ad effettivi riconoscimenti “confermativi” (le due donne si “sfiorano” soltanto ma non si parlano mai): tutto rimane nell’astratta percezione del dubbio. Ci racconta invece le reazioni dell’ex persecutrice e i tentativi che fa  per cercare di fornire all’attuale marito (oltre che a se stessa) una spiegazione “logicamente accettabile” delle sue azioni “commesse” in un aberrante passato, ma anche i suoi profondi turbamenti nel “rammentare” e metabolizzare quei fatti e quei “pensieri” che la presenza inaspettata riporta a galla. In un primo tempo tenterà così di giustificarsi nell’essere stata una semplice esecutrice di ordini ai quali non era possibile sottrarsi, ma poi si svelerà lentamente (le chiarificatrici incursioni visive nel ricordo si intersecano frequentemente creando un “necessario” supporto esplicativo) una realtà  molto più sottile e drammatica, orribile e inquietante  (espressa in  un monologo interiore, che rappresenta uno dei vertici della tensione emotiva della pellicola), non sufficiente però a catalizzare fino in fondo un processo di coscienza critica: quando la misteriosa passeggera che ha messo in modo quel movimento dubbioso di autoanalisi “confessionale” scenderà dalla nave, la coppia proseguirà il viaggio quasi dimenticando ogni cosa, riappropriandosi così dell’indifferente acquiescenza di una quotidianità ormai consolidata priva di effettivi rimorsi.
Il film è sicuramente la più alta rappresentazione cinematografica del perverso rapporto vittima-carnefice, oltre che un capolavoro assoluto di tensione emotiva  e di modernità di scrittura.
Si tratta in effetti di un progetto molto sentito ed elaborato in fasi successive, proprio al fine di raggiungere “la sintesi” perfetta. Girato una prima volta come originale televisivo nel 1960 (ce lo ricorda il Mereghetti) ma con una differente struttura narrativa che usava soprattutto i dialoghi per rievocare il passato, fu rifatti nuovamente l’anno successivo in questa versione per il cinema, nella quale le immagini del passato e del campo di Auschwitz, assumono invece una posizione preponderante, non inferiore al peso centrale che viene assegnato proprio ai rapporti fra le due donne, accentuandone fortemente l’ambiguità psicologica e morale. Si definisce così al meglio l’immagine  complessiva (ed il pensiero)  del regista, crudele fino all’autolesionismo nel raccontare il campo di concentramento senza alcun compiacimento descrittivo, ma asciugato anche dal pericoloso sentimento della compassione. E il suo analitico sguardo freddo e impassibile, contribuisce a rendere ancora più evidente l’orrore del nazismo e a fare del film, come ho già accennato, la più profonda, efficace e terribile testimonianza dei rapporti che si instaurano fra vittima e carnefice in un universo chiuso come quello del campo di concentramento, che anticipa tematiche poi sviluppate in molte altre opere successive, che sono  soprattutto quella prioritaria dell’indagine “conoscitiva” e inquietante sulle “ambiguità” di fondo che legano indissolubilmente  il “dominante” al “dominato” e il  rapporto di  “dipendenza”  che ne deriva, compresa l’interscambiabilità  anche a intermittenza “variabile” dei loro ruoli,  ma privilegiando sempre la visione prioritaria del punto di vista della vittima, come ad esempio nel più corrivo e  “semplicistico”, per le sue implicazioni troppo spinte sul versante sadomasochista,  Il portiere di notte della Cavani, o nel più memorabile La morte e la fanciulla (dramma teatrale e realizzazione cinematografica) che presenta invece alcune importanti e fondamentali “variazioni” che differenziano “diversificandoli” fra loro, persino i due “percorsi mentali”, quello di Ariel Dorfman autore della piece teatrale e quello di  Polanski, straordinario mediatore di un non del tutto conforme adattamento cinematografico del testo.  Certamente però il discorso si fa molto più ampio, poiché non ci si limita soltanto a questi aspetti, ma si osserva anche implicitamente la dialettica tra disperazione e speranza, la relazione fra forza e vulnerabilità, il passaggio (e la labile barriera che esiste) fra amore, attrazione fisica e odio, il tutto non avulso dalla percezione di “ineluttabilità”, o meglio di un immodificabile “destino” al quale è impossibile sottrarsi che è anche la voglia di “non voler sapere” (il che ci fa pensare anche ad alcune intuizioni riprese poi nel recente The Rider ed esemplificate principalmente non soltanto nel dialogo-confronto finale fra il Michael ormai adulto  che esegue le ultime volontà di Hanna, e la figlia superstite di una delle deportate sopravvissute, ma anche e soprattutto nella scena dello scontro fra il professor. Rohl e i suoi allievi sui rapporti fra etica e diritto).
Il carattere  del film (e la sua importante peculiarità), risiede però questa volta soprattutto nella “scelta” non conforme  di affidarsi  interamente a un punto di vista soggettivo che è poi quello inusuale dell’aguzzina, evitando così il rischio del melodramma,  per privilegiare una analisi sobria che – e potrebbe sembrare un controsenso – “oggettivizza”, e proprio per questo essere “al di sopra delle parti”, priva di alibi e “comprensioni” quelli che erano e sono “gli orrori possibili alla natura umana” che ci risaltano evidenti in tutta la loro terribile portata distruttiva. E’ al tempo stesso però anche però una delle più importanti testimonianze visive fra quelle realizzate per il grande schermo non a sfondo documentario, sui campi di sterminio,  poichè – rinunciando a descrivere l’indescrivibile – sceglie di parlarne scavando soprattutto nelle psicologie dei criminali e in quelle delle vittime eleggendo a paradigma  due personaggi e un contrasto esemplari, ma tenendo sempre sullo sfondo proprio le scene di orrore quotidiano dei lager così da creare la giusta distanza emotiva che non elimina il giudizio.
E’ impossibile liberarsi del proprio passato, sembra volerci trasmettere Munk, e ce lo dice con un rigore che è ancora più destabilizzante per chi osserva e percepisce dall’esterno che si trova a valutare due concrezioni dell’uomo che si scontrano, in un momento storico certamente contingente e particolare, ma purtroppo ripetibile  (la nostra contemporaneità ne ha già nuove e concrete tracce che ci  trasmettono inquietanti similitudini, in altri contesti paesi e condizioni,  ma che non variano molto sia nelle modalità applicative  che nelle motivazioni).
Al pari di Wajda dunque (ma con mezzi più semplici e meno emotivi anche se analogamente efficaci nel risultato) il messaggio di Munk esprime e condivide un'ansia di comprensione non “assolvente” (e porta analoghe tracce di quella tensione che è "resistenza oppositiva" alla disperazione e agli orrori della storia  che con i suoi insegnamenti  non diventa mai purtroppo un adeguato monito difensivo ed esorcizzante che ci salvaguarda dalla ripetitività di simili azioni nefande).
 
Secondo Mark Cousins (regista, scrittore e direttore di festival) poi (e questo è un inciso ulteriore che riporto per la sua singolare “elaborazione” di pensiero che mi sembra comunue interessante), la necessità e la scelta di utilizzare immagini fisse per il presente, fornisce una insolita carica quasi premonitrice che ci riporta proprio alla prematura dipartita di Munk, e quello che potrebbe sembrare un limite diventa così invece un prezioso “valore” aggiunto anche stilisticamente parlando: quando Liza vede Marta sulla passerella della nave, entrambe sono immobili nel tempo, e la stessa immobilità si ritrova nella scena successiva in cui Liza è sul ponte con il marito. La conseguenza evidente è dunque che solo il passato, le sue iniquità e lo scontro tra le due donne  nel lager sono vivi, in movimento. Ma così come il regista è perito nell'incidente, sembra che anche le donne siano morte allora, non siano sopravvissute all'orrore, e che il loro incontro anni dopo, sia solo il riflesso di un brutto sogno, il che determina un effetto abbastanza straniante che si riflette emotivamente sulla percettività dello spettatore.

Su Andrzej Munk

Andrzej Munk pur nella sua breve carriera, è stato uno dei maggiori registi (insieme a Wajda) di quella che negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, fra i ’50 e i 60, fu definita la “nouvelle vague polacca”. Nel 1950 si diplomò all’Istituto cinematografico di Lodz e, nella fase iniziale della sua attività, si dedicò principalmente alla realizzazione di numerosi documentari. Nel cinema di finzione, esordì nel 1957 con Un uomo sui binari (Czlowiek na torze) premiato al festival di Karlory Vary. Già con questa sua prima opera, dunque Munk incide positivamente sulla storia della settima arte e si fa notare nel panorama mondiale, soprattutto europeo fortemente in fermento in quel periodo. Il suo stile ironico e a volte grottesco è già definito e maturo: prendendo come pretesto la morte di un vecchio ferroviere, Munk riesce infatti ad esprimere una acuta, circostanziata e graffiante critica verso gli abusi della burocrazia del suo paese. Da subito dunque alla ribalta della notorietà, il suo nome viene definitivamente (e positivamente) sdoganato a livello mondiale, con Eroica del 1958 che lo consacrazione ufficiale fra i grandi. Il tema di questo film è ancora una volta quello dell’eroismo, spesso ricorrente nel cinema polacco, ma riletto e rivisitato in una prospettiva fortemente smitizzante. La rappresentazione che Munk fa del suo paese durante gli anni più duri della guerra, è dunque ancora una volta fortemente demistificante. Nei due episodi che compongono l’opera, nel primo mette in campo, nel clima infuocato dell’insurrezione della Polonia contro i nazisti, il classico antieroe per definizione e vocazione; nell’altro invece, le tensioni, le insofferenze e gli odi di un gruppo di uomini rinchiuso in un campo di prigionieri di guerra. Il suo discorso sull’antieroe continua poi con Fortuna da vendere (Zezowate szczescie) del 1960 con il quale – attraverso la descrizione della vita di un uomo - analizza vent’anni della storia polacca con il suo consueto stile sottile e un po’ criticamente crudele.L’opera successiva, rimasta incompiuta per la sua improvvisa morte e portata a termine da W. Lesiewicz è questa, La passeggera che conclude bruscamente e prematuramente la sua carriera cinematografica e la sua vita, lasciando grande rimpianto per la tragica perdita di uno degli esponenti più felici e personali della storia della cinematografia polacca.

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