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Gangs of New York

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su Gangs of New York

di yume
10 stelle

Scorsese scava nella storia di un popolo alla ricerca del suo DNA e lo rovescia sullo schermo in un racconto epico travolgente, in cui respiriamo barbarie mista a slanci di profonda umanità, miseria irredimibile e altezza d’ingegno, odio brutale e amore dolcissimo, sete inestinguibile di potere e sacrificio di sé fino alla morte.

“Con la secchezza di uno dei tanti colpi che risuonano in numerosi passaggi del film, con la tagliente incisività di uno dei coltelli maneggiati con virtuosistica bravura da Bill il macellaio, il film argomenta una tesi “dura “, quanto difficilmente confutabile, e cioè che la creazione tutta artificiale dello Stato è il prodotto di quella violenza che più intimamente di ogni altra caratterizza la natura umana. E mostra fino a che punto, in un mondo partorito dal cruento confliggere di ineliminabili antagonismi, nessuna redenzione sia realisticamente concepibile.”

(Umberto Curi, Morfogenesi della violenza, Gangs of New York, in Un filosofo al cinema, Bompiani 2006 )

 

Così argomenta il filosofo e lo spettatore non può che annuire amaramente, riflettendo anche nella sua pupilla quello che, a inizio e fine film, si riflette nell’occhio ingrandito di Bill: lo skyline di New York che cresce progressivamente, dalle baracche e dai sordidi agglomerati delle origini fino a svettare orgogliosa verso il cielo con i grattacieli di Manhattan, comprensivi delle due torri che crolleranno di lì a poco.

 

La produzione lunga e travagliata del film ebbe infatti i suoi gravi intoppi proprio per il crollo delle torri, nel 2001, che ne posticipò l’uscita aggravando non poco i tanti problemi affrontati da Scorsese per portare a termine questo suo capolavoro.Ma le storie dei film, i loro “dietro le quinte”, benchè materia affascinante, esulano dall’analisi vera e propria del testo e dunque de hoc satis, dicevano gli antichi.

Il tema centrale e onnicomprensivo del film è la violenza come elemento costitutivo e ineludibile dell’agire umano.

Non c’è immagine che non grondi sangue, la scenografia di chilometri della New York ottocentesca che Dante Ferretti  ricostruisce a Cinecittà con rigore filologico, la fotografia cupa, gravida di fumi e toni cimiteriali di Michael Ballhaus, i corpo a corpo con armi da taglio, gli assalti della forza pubblica con armi da fuoco, la risposta del popolo con armi da getto, tutto collabora a rendere il film memorabile per realismo e ferocia.

Eppure, e ne costituisce lo specifico, non c’è scena, dettaglio, messa a fuoco che susciti ribrezzo, rifiuto della visione, insofferenza. E’ come se un principio metafisico scegliesse di incarnarsi in forme accessibili allo sguardo per predicare il suo messaggio. E’ quello che succede di fronte alla violenza presente nel racconto della passione e morte di Cristo, sarebbe un agghiacciante horror se non fosse quello che, invece, è, mistero visibile anche ai bambini.

 

Sinossi (necessariamente scheletrica dello sviluppo fluviale ed epico del film)

Nella seconda metà del XIX secolo a New York americani e immigrati irlandesi si combattono per spartirsi il territorio. Da una parte ci sono i “Conigli Morti”, guidati dal giovane Amsterdam Vallon (Leonardo Di Caprio) dall’altra i “Nativi”, capitanati dallo spietato Bill Poole detto “il Macellaio” (Daniel Day -Lewis).

Sono le gangs che spazzano un territorio privo di leggi, corrotto e attraversato da pesanti forme di razzismo contro tutti i diversi, non solo negri.

Amsterdam vuol vendicare la morte del padre, assassinato da Poole sedici anni prima. Poole vuole uccidere Amsterdam, che aveva accolto come un figlio, non riconoscendolo, ma poi, avuta la spiata giusta, cerca di eliminare per mantenere il predominio. Lo sky line finale di New York sigilla significativamente una storia infinita.

A partire dalla sequenza iniziale, con il piccolo Amsterdam che segue volenteroso e con grande trasporto il grande padre (Liam Neeson), uomo nobile e generoso che cade ucciso da Bill Poole nello scontro fra le due gangs, assistiamo ad una di quelle memorabili scene di massa e di violenza che sono il connotato forte del film.

Che si combatta o si stia a teatro, che si sgavazzi in osteria o bordello, che ci si baci o si lancino coltelli per divertimento in un surrogato del Circo Barnum, si respira violenza in tutte le sue forme, ed è esattamente quello che Scorsese intende comunicare.

Non si può fare a meno della violenza per porre fine alla violenza. Ma è appunto per questo che la violenza è interminabile” afferma René Girard, filosofo francese che scardina ogni illusione al riguardo con argomentazioni difficili da contraddire.

Senza addentrarsi troppo in questioni socio-filosofiche che porterebbero lontano, è però necessario sottolineare l’assunto tematico che appartiene al pensiero di Scorsese, in Gangs of New York come in tutta la sua produzione, fino a Silence del 2016.

 

La brutalità ferina della natura umana e la sua innata propensione alla violenza sono elementi costitutivi che, con paradosso solo apparente, “… vengono sublimate quale regola generale di funzionamento della comunità umana… Raramente il cinema è riuscito così bene a rappresentare la violenza senza esibirla, a far sì che ogni immagine sia intimamente pervasa, senza che si assista al suo pervertimento in puro sadismo… Qui Scorsese mostra che a fondamento della società persiste ciò che ne è all’origine, sotto il profilo storico-concettuale, cioè l’istituzionalizzazione della forza.”. (U.Curi cit.)

 

Scorsese scava nella storia di un popolo alla ricerca del suo DNA e lo rovescia sullo schermo in un racconto epico travolgente, in cui respiriamo barbarie mista a slanci di profonda umanità, miseria irredimibile e altezza d’ingegno, odio brutale e amore dolcissimo, sete inestinguibile di potere e sacrificio di sé fino alla morte.

Il tutto in presenza contemporanea, con la stessa forza affabulatrice di un Omero che sotto le mura di Troia conciliò gli estremi più improbabili, odio e amore, bellezza e bruttezza, vita e morte, generosità e rancore.

Illudersi che storie simili appartengano al passato e l’uomo sia in marcia progressiva verso il sol dell’avvenire è ingenuo zuccherino per creduloni.

Five Points, il settore di New York dove si scatenano gli scontri, è il nucleo di una metastasi che arriva alle due torri e va oltre, attraversa il presente e si proietta sul futuro, la radice linguistica della città, pol-is, è la stessa della parola guerra, pol-emos, e l’uomo plasma il linguaggio a sua immagine e somiglianza.

 

Gangs of New York non è stato un film unanimemente amato né dieci nomination all’Oscar valsero a garantirgliene uno. Mancanza di novità nei temi affrontati, sceneggiatura e personaggi mal scritti furono gli addebiti.

Senza voler confutare pareri legittimi, benchè incomprensibili, non intendendo innalzare a parametro assoluto il proprio personale giudizio di eccellenza, pensiamo che il parere di “un filosofo al cinema” valga più di argomentazioni francamente carenti sul piano critico:

Opera straordinaria, per il rigore concettuale della costruzione, l’asciuttezza dell’impianto narrativo, la coerenza della proposizione di un assunto chiaramente identificabile, la capacità di conferire alle immagini vibrazioni emotive di forte intensità, Gangs of New York è certamente fra le creazioni più riuscite, probabilmente la più matura, nell’ormai ricca produzione di Martin Scorsese.” ( A.Curi, cit.)

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