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Gangs of New York

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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Marcello del Campo

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La recensione su Gangs of New York

di Marcello del Campo
8 stelle

 

ELOGIO/ELEGIA PER GANGS OF NEW YORK

 

 

Gangs Of New York chiude un trentennio di cinema che si può elidere al novanta per cento per sempre dalle mappe ll’occhio; taglia corto con la cinefilia corrente-autoindulgente che ha consegnato agli intellettuali armi e bagagli della critica, non fa il verso né si rifà ai rifacimenti dei savi pazienti, al calcolato calco dei generi affossandone i codici; irrita tutti quelli che al cinema chiedono di sentirsi intelligenti (l’astuzia dei Coen che invita allo sterile esercizio del narcisismo è il punto più alto del fallimento di un’intera generazione di cineasti rovinata dal rovinoso confronto tra l’autentico détournement e l’inautentico che non “parla” il cinema ma da esso si “fa parlare” nelle forme che tanto piacciono all’intellettuale-massa); delude gli esegeti dei resti e degli scampoli che adesso, sviati dai fatti della produzione, rovistano l’integrità dell’opera, caso mai il diamante si trovi entro lo scarto e non brilli invece, invisibile ai ciechi, in questa birth of a city che non fa sconti alla barbarie, mito fondativo dell’impero americano;  disgusta i moralisti che tollerano la violenza che li accerchia da tutti i media, in ossequio all'adagio 'cuore non sente se occhio non vede, i tartufi che massimo si contentano di un girotondo intorno al mondo in furia e fiamme, dimenticando che da sempre il cinema di Martin Scorsese ha raccontato già la storia barbara about buildings and foods in mean street, meglio: dalla rasatura distruttiva del volto dell’anonimo americano e dalla crocefissione dell’operaio sindacalista in boxcar bertha, lascia orfani i fans che di cinema non hanno mai capito la storia e le fonti e stanno al racconto del cineasta che si dice ispirato da Leone, Peckinpah e e Kurosawa sviandoli da una ricerca attenta di altre ispirazioni, meno corrive, dei padri fondatori, John Ford, David W. Griffith, S.M. Ejzenštejn (vedi il leone sulla scalinata che fa l’ottobre dei nostri giorni).

Occorreva che dei cadaveri dell’esercito confederato ficcati nelle paludi della Lousiana si occupasse James Lee Burke i cui libri dialogano con le giacchette blu con gli occhi cavi, che Joe Lansdale scoprisse montagne d’ossa di bambini sotto le belle casette di vita familiare. Scorsese fa l’antropologia popolare di una città eretta sopra eroi e tombe, attraverso un viaggio letterario che parte dalla prosa dei derelitti di Dickens, attraversa il popolo degli abissi di London, facendo piazza pulita di altre band altre odissee, e arriva al capolinea di ogni storia - siamo nella preistoria diceva Marx -, costruendo il primo film davvero postmoderno, più vicino di quanto non sembri ai distratti di scarsa lettura e poca memoria filmica, ai saliscendi vorticosi di Benny Profane o alle bombe che fanno lo scenario quotidiano di Slothrop negli arcobaleni di gravità.

Gangs Of new York, con buona pace di tutti, e attendendo il sorrisino ebete dei moretti in tour per la penisola, prende l’ultimo fotogramma che stava per sfuggire dalle mani degli insipienti e ri-comincia (o porta a compimento: è lo stesso) la storia del cinema.

Altri discorsi sono materia di contrabbando e bric à brac nel grande circo dei bla  bla di professione, quelli con gli asterischi a premio e le stelline: parlino pure tra loro, si “facciano parlare” entro l’ordine del discorso dove tutto è immutabile e interdetto.

Della materia di cui son fatti i sogni - più scespiriano di così! - stiano accortamente alla larga i cinefili (immaginate la prostituzione critica dei cine club), non c’è n’è per nessuno.

 

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