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Requiem for a Dream

Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film

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La recensione su Requiem for a Dream

di scandoniano
9 stelle

Il giovane Harry è un tossicodipendente che vive di espedienti, la madre vedova lo protegge perché lo ama e ha paura di perderlo. Quando entrambi puntano al salto di qualità (spacciare droga / tirarsi a lucido per andare in tv), le cose cambiano drasticamente e dall’estate della speranza, si passa all’inverno del decadimento, dopo un autunno di sofferenza…

Il soggetto può sembrare non un granché, ma la sceneggiatura è decisamente interessante, scritta a quattro mani dal regista Darren Aronofsky e da Hubert Selby jr., autore quest’ultimo dell’omonimo romanzo da cui il film è tratto. “Requiem for a dream” è intensamente drammatico, molto coinvolgente e fatto di fluenti dialoghi che per quanto ampollosi non annoiano mai.

Ma il film è soprattutto una memorabile esperienza visiva, impegnativa ed esasperante: a partire dallo split screen iniziale, passando per scene in time-lapse, le interferenze e le inquadrature deformate, Darren Aronofsky dimostra di padroneggiare a meraviglia la macchina da presa, giocando in particolare con l’angolazione di ripresa, quasi fino allo sfinimento: qualsiasi tecnica si possa usare per affabulare, conquistare, annichilire lo spettatore, per di più quasi sempre funzionale al racconto, Aronofsky la mette in pratica. Specie nell’ultima parte (in cui mostra un’inattesa anima da videoclipparo), ossia gli ultimi cinque minuti di ripresa in cui le vicende dei protagonisti volgono al termine, le immagini di Aronofsky veicolano in maniera esacerbante il messaggio alla base del film, ossia che la deriva moderna è generatrice di un’ineluttabilità che non ha né redenzione, né catarsi (non a caso le stagioni narrate sono tre, e quella della rinascita, la primavera, non è contemplata), ma che anzi regredisce ad una dimensione pre-natale, simboleggiata dalla posizione fetale assunta nelle ultime inquadrature dai protagonisti.

Aronofsky, più ancora che altrove, spezza via il concetto stesso di tempo, sperimentandone tutte le alterazioni, da quelle inerenti il ritmo a quelle che riguardano il suo andamento. La droga dei tre ragazzi e le anfetamine della signora Goldfarb portano ad un’alterazione del flusso di coscienza dei personaggi che ben presto diventa totalizzante (aiutato da un tema musicale martellante e pervicace), al punto da contagiare anche le immagini, le riprese, la fotografia (complessivamente di grande personalità), ma soprattutto il montaggio; quest’ultimo risulta serrato, antonimico, talvolta addirittura concupiscente coi personaggi stessi, al punto da realizzare un cortocircuito che alla fine armonizza tutti gli elementi che il film veicola.

Bravo tutto il cast, con in testa la magistrale interpretazione di Ellen Burstyn in un ruolo complicatissimo; tra le cose che più sorprendono del film (specie col senno di poi) c’è la capacità di stare in scena di Marlon Wayans (Tyrone), soprattutto pensando che di qui a poco avrebbe interpretato lo Shorty di “Scary movie”, film (e interpretazione) dal registro completamente differente e che lo porterà ad una carriera nel cinema comico, sovente al limite del macchiettistico.

Capolavoro di creatività, trip cinematografico innovativo.

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