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A cavallo della tigre

Regia di Carlo Mazzacurati vedi scheda film

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La recensione su A cavallo della tigre

di degoffro
6 stelle

"A cavallo della tigre" è ispirato molto liberamente all'omonimo film di Luigi Comencini del 1961, sceneggiato da Age, Scarpelli e Monicelli, con protagonista Nino Manfredi, lo stesso Mazzacurati precisa che il suo "non è un remake classico ma soprattutto un omaggio a un’opera che all’epoca ebbe un’accoglienza difficile, ma che ho sempre considerato coraggiosa, anomala e niente affatto secondaria rispetto a capisaldi della grande commedia come "I soliti ignoti" e "Una vita difficile". Continua il regista: "Anche se sono passati quarant'anni da quel film, mi piacerebbe aver imparato da Comencini e dai suoi sceneggiatori Age, Scarpelli e Monicelli, che ne furono con lui anche gli sfortunati coproduttori, la forza del loro sguardo sulla realtà, l'amore, la comprensione, la partecipazione per i personaggi disgraziati e l'assenza di cinismo. In Italia, troppo spesso si continua a pensare che il cinismo sia una cosa divertente e simpatica: è la contraddizione che ha segnato tanti film di Sordi, che continuano a suscitare desiderio di emulazione dei "mostri" che rappresentano, anziché la necessaria riprovazione.". Se sulla carta l'idea era molto stuzzicante e perfettamente nelle corde di Mazzacurati, il film però si rivela una sintesi (im)perfetta del cinema dell'autore, in cui le due anime della sua opera, i due fils rouges che hanno attraversato da sempre i suoi titoli si (re)incontrano, forse definitivamente (non a caso, il successivo "L'amore ritrovato" rappresenta un evidente cambiamento). Da un lato infatti un cinema di perdenti: Guido, interpretato con intelligente, finissima e naturale immedesimazione dal solito, stupefacente, Fabrizio Bentivoglio, l'unico attore italiano che da solo vale un film, è il classico sfigato: guardia giurata, infelicemente sposato (la brevissima sequenza in cui la moglie, furibonda, lo caccia di casa dopo che l'uomo le ha comunicato che ha un'altra donna, è da manuale della comicità), quarantenne di bell'aspetto che si fa prestare i soldi dall'uomo del caffelatte puntualmente sbrodolato, ancora a caccia di donne, ma soprattutto ancora alla ricerca del grande colpo che cambi definitivamente la sua vita da pezzente. Guido, con la sua sbruffoneria cialtrona, è parente stretto dei due protagonisti de "La lingua del santo" con cui questo "A cavallo della tigre" costituisce un ideale dittico: come loro non sa ancora bene cosa fare della propria vita e crede, o meglio si illude, che una maldestra, goffa ed improvvisata rapina in un grosso magazzino nei giorni caotici che precedono il Natale, quando tutti i comuni mortali sono a spendere e spandere per i consueti, inutili, regali (bella e significativa in questo senso, la sequenza sui titoli di testa, rappresentazione perfetta di un consumismo dilagante, di uno shopping spesso fine a se stesso), con la complicità di un Babbo Natale piuttosto pasticcione, possa davvero essere il segno che la ruota gira perché del resto "è il calcolo delle probabilità, dei grandi numeri, è matematica!". Peccato però che nel suo ideale progetto non trovi la complicità neppure di un barbone, grazie alla cui testimonianza viene smascherato (aveva finto di essere stato vittima di un'aggressione). Da qui, inevitabile il carcere. Dall'altro lato un cinema di frontiera, l'aria serena dell'(ov)est: in prigione, infatti Guido incontra Fatih, un settantenne di origine turca, ed Hamid, un marocchino di trent'anni, emigrati dall'est all'ovest (leggi Italia) in cerca di fortuna ma finiti, come spesso capita, rovinosamente. Guido viene coinvolto, a pochi giorni dal rilascio, nell'evasione organizzata dai due e con loro, gioco forza, inizia un nuovo imprecisabile viaggio (tutti i protagonisti del cinema di Mazzacurati sono costantemente in viaggio, che sia il dentista di "Un'altra vita", gli allevatori de "Il toro", la prostituta Vesna o i ladri de "La lingua del santo") con una sola vera meta: riabbracciare l'amata Antonella (il Babbo Natale complice, sfigata quanto lui, personaggio parallelo a quello interpretato da Isabella Ferrari ne "La lingua del santo", vero motore di ogni azione di Guido), e sua figlia di 10 anni, forse il personaggio più maturo e responsabile della banda. La convivenza forzata con il turco Fatih (il marocchino Hamid li abbandona ben presto, fuggendo con la sua donna, cassiera in un cinema porno) gli farà scoprire un'inedita, inattesa e sorprendente amicizia (il legame sincero tra caratteri opposti e all'apparenza inconciliabili è un altro tema ricorrente in Carlo), tanto da decidere di aiutare Fatih a fuggire in Turchia. Purtroppo però Fatih morirà prima di vedere realizzato il suo desiderio e a Guido non resterà che fare al suo posto quel viaggio verso la Turchia, con Antonella e sua figlia, continuando a cavalcare la tigre, ma anche perennemente in fuga (come Vesna in "Vesna va veloce", Alia in "Un'altra vita", Antonio ne "La lingua del santo"), nella speranza o nell'illusione, come i due allevatori de "Il toro" di trovare solo in un altrove indefinito la propria vera identità e la propria giusta collocazione e/o realizzazione. Film dalla sceneggiatura (dello stesso regista con il fidato Franco Bernini) meno compatta dei precedenti: irrisolto e superficiale, per esempio, il personaggio della Cortellesi, era molto meglio la presenza quasi fantasmatica della Ferrari ne "La lingua del santo", troppo facile e repentino il modo in cui l'ispettore Roberto Citran, vedendo la foto di Antonella su un calendario, risale all'evaso, affrettato e posticcio il finale - Guido perdona con una certa semplicità e faciloneria Antonella che se ne è andata con un altro uomo e ha sperperato tutti i soldi della rapina - superfluo il personaggio dell'infido marocchino poco credibile quello del nuovo compagno di Antonella, interpretato da Marco Paolini, già complice di Mazzacurati ne "Il toro" dove era un collega licenziato di Abatantuono e ne "La lingua del santo" dove interpretava proprio Sant'Antonio, spuntate e fiacche le scontate frecciate alla televisione, attraverso il personaggio della Cortellesi, a rischio di stereotipo il turco Fatih, il classico gigante buono, anche se all'apparenza violento e prevaricatore, "l'anziano turco dal cuore di fanciullo che sulle prime sembra Mangiafuoco, poi si rivela un uomo smarrito e bisognoso di protezione" (Roberto Nepoti), eccessivamente metaforico il viaggio finale sulla chiatta, uno stereotipo un pò troppo abusato la voce fuori campo della bambina ("Lo sguardo semplice dei bambini a volte riesce a districarsi meglio nella complessità della vita. La bambina qui sembra più adulta degli adulti." ha detto il regista). Indeciso e sospeso tra realismo e poesia, crudezza e lirismo, fiaba ed avventura, dove ilarità e sentimento, dramma e commedia non si amalgamano con la naturalezza e l'immediatezza proprie delle opere migliori di Mazzacurati, così che l'amaro divertimento e la risata trattenuta che erano il punto di forza de "Il toro" e "La lingua del santo" paiono smorzati ed il film procede in modo singhiozzante quando non monotono, faticoso e piatto, meno rigoroso e non sempre pregno di quel delicato melanconicismo che il regista è solito mettere fra le immagini e dentro ai personaggi dei suoi racconti, così che alla fine ne risulta un film spaesato, un po’ in disanimo, che non sempre commuove e che raramente fa ridere, a cavallo della tigre appunto: "Mazzacurati tenta un'operazione ambiziosa e rimane a metà del guado dandoci un film che é divertente al 50%, drammatico al 50%, fiabesco al 50% e politicamente scorretto (quel galeotto seppellito in mare come un eroe, coperto dalla bandiera turca é una bella immagine), anche qui, al 50%. Andrà meglio la prossima volta" (Alberto Crespi). "A cavallo della tigre" vive soprattutto di alcuni momenti felici (i due evasi a un distributore puliscono i vetri di una macchina, salvo poi accorgersi che è quella della polizia), altri commoventi (la morte del turco e il suo viaggio finale in mare su una specie di zattera, sono autentici pezzi di bravura e si imprimono nella memoria), si appoggia, quasi in toto, al talento sopraffino di Bentivoglio (più acerba la Cortellesi che eccede in moine, mentre significativa e convincente appare la prova di Tuncel Kurtiz, poco significativi invece appaiono gli apporti degli affezionati Roberto Citran nei panni dell'ispettore e di Marco Messeri, Iguana, colui che dovrebbe aiutare Fatih ad imbarcarsi per la Turchia, oltre che del citato Marco Paolini), utilizza al meglio Mango ("Lei verrà") e le musiche di Ivano Fossati, offre uno spaccato, credibile e davvero raro nel nostro cinema, della realtà delle nostre prigioni, e, oltre ad essere un resoconto, piuttosto risaputo e diseguale, sul fallimento di un'anima comunque pura e candida, è soprattutto un nuovo felice (ad intermittenza) e spiazzante racconto di un'amicizia tra due emarginati, sconfitti e delusi dalla vita (i protagonisti adulti dei film di Mazzacurati sono sostanzialmente i giovani ragazzi scapestrati de "Il prete bello" che avevano nel "ragioniere", truffatore fallito di mezza tacca, il loro modello di comportamento) nata per caso e/o per necessità ma rivelatasi più autentica e profonda di tante altre. Un film, praticamente invisibile in sala, che comunque conferma lo sguardo partecipe, umile e sensibile di un regista coerente e mai banale, sempre pronto a metterci di fronte alla dura realtà che ci circonda ed a aprirci gli occhi con finezza, intelligenza, ironia e soprattutto senza mai alzare la voce, bravo nel mettere in scena i suoi favoriti perdenti, in polemica con l'arroganza e la volgarità dei vincenti con uno stile leggero, elegante, semplice, quasi impalpabile, mai volgare o grossolano, nel solco della venerabile commedia all'italiana. Per il regista il suo infatti è "Un atto d'amore per le persone semplici che vivono con difficoltà il nostro tempo, per i personaggi marginali alla ricerca di una possibile sopravvivenza, per quelli che sbagliano o non sono giudicati abbastanza furbi attraverso uno sguardo ironico su una certa Italia sbrigativa e di scarsa memoria, che crede di poter risolvere i problemi della vita utilizzando delle facili scorciatoie. Una storia rocambolesca con protagonista un uomo senza particolari qualità: un ingenuo, uno che crede che la Tv e la vita non siano dissimili e se qualcosa non piace basta cambiare canale. Il personaggio è superficiale, ma poi si accorge delle persone e del mondo intorno, gli incontri che fa gli fanno acquisire consapevolezza e uno sguardo che prima non aveva. "Cavalcare la tigre" significa appunto trasformare la paura in coraggio.". E questo suo sguardo delicato e partecipe sugli umili, sui disgraziati, visti nella loro purezza e genuinità, continua ad essere, oltre che il suo inconfondibile segno distintivo, il suo maggiore pregio. Suggestivo, evocativo e molto originale (specie nel piatto panorama del cinema italiano) il manifesto di Lorenzo Mattotti, ma forse fuorviante per un pigro ed annoiato pubblico, disposto a scommettere davvero poco su opere che non vadano al di là di esili sketch o di futili barzellette: ed infatti il film, uscito nel novembre del 2002 ha incassato la ridicola cifra di 160.000 Euro circa. Motivo più che legittimo per spingere Mazzacurati a girare il successivo film con la star italiana per eccellenza, Stefano Accorsi, nella speranza, almeno, di guadagnare qualcosa di più.
Voto: 6 e mezzo.

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