Regia di Giovanni Columbu vedi scheda film
Balentes vede la luce a partire da un racconto orale, quello della nonna del regista Giovanni Columbu, e si innesta su un tessuto antropologico. Il racconto, qui, non è semplicemente mimesi della realtà, ma trasfigurazione poetica di un evento che diventa epica popolare.
Il termine balentes in sardo richiama il concetto di coraggio, ardimento, forza d'animo, ma anche di volontà di agire per affermare se stessi, quasi fosse una forma di iniziazione arcaica.
La storia di un furto di cavalli compiuto da due bambini, senza apparente ragione e tramandata a Columbu dalla nonna, si carica così di significati simbolici e rituali: un gesto che rompe l'ordine stabilito, sfida l'autorità (il fascismo, lo Stato) e si colloca in uno spazio tra mito e cronaca, tra infanzia e destino collettivo.
Le didascalie del film accentuano questo legame con la tradizione orale: è come se lo spettatore stesse ascoltando una narrazione antica, spezzettata, trasmessa per immagini e parole come un racconto intessuto nella memoria collettiva di un popolo.
In più, l’uso della lingua sarda, gli attori non professionisti, i paesaggi spogli e scolpiti dal bianco e dal nero, rimandano ad una dimensione arcaica e sacrale che non è mai folcloristica, ma profondamente radicata nel vissuto di una comunità. Columbu non documenta: ritualizza.
E quindi l'intento sembra quello di voler trasmettere la memoria e far resistere la cultura.
Balentes è a tutti gli effetti un film d'animazione, ma non quella digitale, levigata o iperrealista, piuttosto quella artigianale, tattile, "resistente", che nasce dalla materia grezza del disegno, della carta, del tratto manuale. È pittura in movimento. Ogni frame ha il peso e la consistenza di un'immagine impressa nella memoria.
Columbu, da artista visivo qual è, trasforma il gesto pittorico in gesto cinematografico: ogni inquadratura pare scolpita, segnata dal tempo, come una parete rupestre che si anima. La fusione di tecniche – carboncino, acquerello, inchiostro – ha una forte valenza linguistica: racconta un mondo antico attraverso un linguaggio visivo che richiama l'arte primitiva, il muralismo, la grafica contadina, rifiutando la pulizia dell'immagine.
Così come il cinema di un altro grande regista italiano legato alle proprie radici culturali, Simone Massi, anche Columbu sembra concepire l’animazione come espressione identitaria, radicata nel territorio, anti-industriale e profondamente poetica. In entrambi, la materia si fa racconto.
Quella di Columbu, è arte visiva militante, narrazione orale disegnata, memoria incarnata.
Un ulteriore elemento cardine del film è la sua dimensione onirica, perché ciò che Columbu mette in scena non è solo una vicenda ambientata nel passato, ma una memoria che prende corpo e si dissolve nello stesso istante. Il tratto del disegno – spesso incompleto, appena accennato, poroso – contribuisce a dare ai personaggi un'esistenza sospesa, mai pienamente presente, evocata da una coscienza collettiva che sta scomparendo.
Questo anche grazie a una dialettica tra campo e fuoricampo reinventata attraverso il segno grafico, non solo attraverso lo spazio inquadrato o lo stacco di montaggio.
Le figure emergono dal bianco della carta come da una nebbia, per poi ricadere nel vuoto, in continua oscillazione tra presenza e assenza. Il contrasto tra neri intensi e fondi bianchi lavora come un negativo fotografico, in cui ciò che è visibile allude sempre a ciò che è stato o ciò che scomparirà.
Columbu effettua uno scavo archeologico, guardando al modo di rappresentazione primitivo del cinema delle origini, per riscoprire il linguaggio stesso delle immagini in movimento, tra ombre cinesi, pittura a inchiostro giapponese, dagherrotipi e treni che giungono in stazione (si veda una delle ultime scene del film), come a dire che il grado zero dell'immagine sia l'unica forma visiva capace di stare al passo con un mondo arcaico che resiste al tempo e alla modernità, e che può essere raccontato solo attraverso forme che ne rispettino la densità materica, poetica e ancestrale.
In questo senso, Balentes racconta una storia, ma riattiva anche un immaginario sepolto, e lo fa riscrivendo le coordinate stesse della visione, scolpendo le proprie immagini con la luce e l'oscurità.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta