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Pinocchio

Regia di Roberto Benigni vedi scheda film

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La recensione su Pinocchio

di FilmTv Rivista
6 stelle

Quanti anni ha Pinocchio? Gli anni di un’anima inquieta, incosciente, altalenante tra le responsabilità create dall’amore per altri e l’irresistibile desiderio di giocare, di vivere in allegria. «Fare allegria è la cosa più bella che si possa fare al mondo», dice la Fatina all’inizio del film parlando della farfalla azzurra che la segue e la incarna. Ma in realtà sta parlando dell’arte eterna del comico e della rappresentazione. Pinocchio ha gli anni della libertà e dello sberleffo, della fuga e del piacere irresistibile della scoperta. Scoprire il Teatro dei burattini, il Paese dei balocchi e il ventre del Pescecane. Riemersi dal quale, non si sarà più gli stessi. Meno ingenui, più responsabili: t’hanno domato. Ma, ad aiutarci a sopravvivere “da grandi”, ecco l’arte della fiaba e del comico, la loro eterna possibilità di contravvenire alle regole, la franchigia che ci consente di attraversare il loro territorio liberandoci del peso di noi stessi. C’è chi ha il dono per questo, i grandi artisti, registi, attori, i grandi comici. C’è chi può essere, vivere, interpretare Pinocchio per tutta la vita, elargendoci il suo incanto e la sua grazia inquieta. Benigni era nato per fare Pinocchio; Benigni probabilmente “è” Pinocchio; lo era nel “Piccolo diavolo” e in “Chiedo asilo”, nel surreale invito al gioco del lager di “La vita è bella” e, soprattutto, nell’astratta poesia fuori tempo di “La voce della luna”. La sua faccia, la sua giacca che casca sempre un po’ male, la sua risata, i suoi gesti imprevedibili e irrefrenabili, la sua lingua che coniuga vorticosa filastrocche, bischerate e profondità filosofiche, hanno sempre avuto un’indomabile libertà “pinocchiesca”. Quando, appunto, “liberate”, cadute dal cielo sulla grevità della terra. Poi arriva il gran giorno, Benigni finalmente “fa” Pinocchio, ed ecco che attore e personaggio, invece di prendere il volo, s’incatenano a vicenda, si legano alla terribile concretezza di un set magnifico e sontuoso, di una storia narrata nella sua più superficiale linearità e quasi mai “interpretata” nelle sue dolorose profondità, di una presunzione di realismo che solo un grande occhio visionario saprebbe ricatapultare nel dominio fantasmagorico dell’immaginazione. Fellini aleggia sornione su tutta l’operazione, modello irripetibile per chiunque non sia nato Fellini e non abbia perciò la magia negli occhi, nella mente e nel cuore. Roberto Benigni non è un grande regista, e comunque non è un regista visionario (spesso i grandi comici non lo sono, non lo è Woody Allen, come non lo furono Tati e Chaplin). La loro magia è nella mimica, nel dominio della parola, nella geniale universalità del loro personaggio (pensiamo per esempio a Benigni-Pinocchio sperduto in America in “Daunbailò” di Jarmusch). Se il personaggio scompare, nascosto sotto gli abiti e il cerone troppo bianco di un altro personaggio universale, ingabbiato in un dialogo e in una mimica che non gli concedono libertà, allora la magia, inevitabilmente, si appanna. Allora, balzano in primo piano il regista e l’attore. Il regista Benigni lascia che l’immensa macchina spettacolare di “Pinocchio” lavori per conto suo. Le scenografie e i costumi di Danilo Donati, l’arrivo notturno della carrozza della Fatina, il Paese del balocchi, il Teatro delle marionette, hanno vita propria, egregiamente serviti dalla fotografia di Dante Spinotti e dal montaggio di Simona Paggi. Ma gli manca “l’alito”, quello che li farebbe vivere nel tutto unico di un film. Così, il film se lo mangiano (come se lo mangia la musica di Nicola Piovani, troppa, troppo “alla Rota”, troppo ascendente quando ci deve far capire che ci dobbiamo emozionare). Ma quello che fa più male al cuore è l’attore, che non è più Benigni, ma un attore che fa Pinocchio fuori tempo massimo. Pinocchio, un burattino morto bambino, ha qualsiasi età, purché sia astratto, letto, interpretato; ha l’età di Benigni in giacchetta e occhiali con la montatura nera, l’età di Cioni Mario e del lunare Salvini. Ma non ha l’età di questo clown intristito e saltellante (e quanta spontaneità, invece, nelle movenze ancora da ragazzo del trentenne Kim Rossi Stuart!). Di Pinocchio resta solo l’ombra, che si allontana indomita nell’ultima scena, l’unica veramente, interiormente, poetica, che ci fa rimpiangere il film che avrebbe potuto essere.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 0 del 2002

Autore: Emanuela Martini

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