Regia di Maryam Moghaddam, Behtash Sanaeeha vedi scheda film
Il mio giardino persiano (2024): locandina
l titolo internazionale, My favourite cake, è in perfetta sintonia con quello italiano, Il mio giardino persiano, e chi potrebbe mai immaginare, se non guardasse la locandina, che si parla di terza età, di solitudine, di un mondo grigio dove una sedicente Polizia Morale allinea tutti, vecchi e giovani, con insensate persecuzioni e occhiuta vigilanza, in un ordine pubblico che nega vita, libertà, respiro?
Siamo in Iran, e dove altrimenti? I due registi non sono intervenuti a Berlino dove il film era arrivato. Film non allineato, come quelli di Panahi, non è una novità, e il mondo sta a guardare. Del resto, problemi ne ha da vendere, a ciascuno il suo.
Eppure, nonostante quest’aura cinerea che gli alita intorno, Il mio giardino persiano è un film che merita la Berlinale, una platea di cinema che non delude mai.
Che si parli di torte o di giardini, riesce a reclamare con forza quel diritto alla vita negato dal regime con mezzi di ottusa invasività, si pensa a Fahrenheit 451 di Truffaut, ma il finale non è altrettanto promettente. Nel giardino saranno seppelliti gli ultimi sogni di Mahin, la settantenne avvilita da trent’anni di vedovanza che finalmente, un giorno, aveva preso quell’iniziativa da sempre retaggio del maschio, e aveva invitato per cena il tassista anziano e sconosciuto che la stava portando a casa.
I due autori, Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, sanno dosare i toni, i due attori sono perfetti nel loro ruolo, sul tramonto della vita i colori si fanno più caldi, le parole più leggere.
Fuori dal cancello del giardino, amato e rigoglioso, illuminato da lampadine montate da Faramarz, l’anziano tassista divorziato da tempo immemorabile, c’è una vita che non appartiene a chi, come loro, ha vissuto una giovinezza libera e felice.
L’orizzonte si è chiuso, il sonno è il rimedio, vedere amiche una volta l’anno o i figli espatriati in video-incontri frettolosi è ciò che resta del giorno.
Il mio giardino persiano (2024): Lily Farhadpour
Mahin è una donna battagliera, anche se per età e mole è in disarmo, alla giovinetta spaurita dal brutale poliziotto dice di non cedere, guai farsi vedere spaventati, loro se ne approfittano.
Belle parole, ma ci sono posti al mondo in cui serve ben altro.
Mahin prova a dare un ultimo giro ad una manovella arrugginita, la solitudine le pesa e allora decide. Nell’armadio ha bei vestiti mandati dalla figlia che non mette mai, ha bei dischi di musica da ballare, una casa bella con quel giardino così solitario. Questo le dà quella forza di cui nessuno le fa credito, a quell’età si può solo aspettare la morte.
Storia in apparenza semplice, quasi dimessa,sprigiona la forza che nasce dal poco quando diventa tutto. C'è una forte valenza politica, senza slogan o cortei, lo sguardo su quelle vite basta, ci si rannicchia in un guscio vuoto, si aspetta che il nuovo giorno sia uguale all'altro.
Il mio giardino persiano (2024): Lily Farhadpour, Esmail Mehrabi
E invece Mahin sa che la vita va vissuta ad ogni età, e lo dimostra con dolcezza mite e responsabile, Faramarz è l’uomo giusto che a volte un miracolo fa incontrare.
Poteva essere un perfetto finale di partita, poteva essere un tramonto dorato.
Purtroppo non è stato così, le favole sono favole e questa è realtà.
Solo poche ore e Mahin si stringerà la testa dicendo “Perché mi fai questo?” rivolta ad un Dio che non c’è.
Il giardino persiano conserverà il suo segreto, nascono bei fiori sulle tombe.
E la torta? Bellissima, rosa con bacche ad adornarla. Un pezzetto ne avrà anche Faramarz, una volta si metteva un soldino in bocca ai morti per il “nocchier della livida palude”.
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