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Aprimi il cuore

Regia di Giada Colagrande vedi scheda film

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La recensione su Aprimi il cuore

di OGM
7 stelle

La presenza (amichevole?) di Tonino De Bernardi in questo film fa davvero pensare. Forse non è un caso se nel lungometraggio d’esordio della  giovane regista, sceneggiatrice ed attrice Giada Colagrande si respira un’aria così  stranamente assorta, sinistramente casalinga, falsamente rassicurante perché contigua a territori maledetti. La storia è semplice, futile, convenzionale, presa in prestito dai casi più squallidi della cronaca nostrana, e dalle più trite fantasie della letteratura noir. La provocazione si direbbe troppo esplicita per essere credibile, e la protagonista parrebbe troppo ostentatamente borderline tra l’innocenza e la perversione. Maria e Caterina sono le classiche sorelle terribili. La prima, che è la maggiore, fa la prostituta; la seconda una diciassettenne che sembra compita e studiosa, mentre, in effetti, è la sordida complice di un gioco che si farà sempre più diabolico. Il fatto è che tra le quattro pareti di una casa qualunque, situata in un quartiere popolare di una città mai nominata, anche i suoni più intimi e sommessi producono un grande rimbombo. Il nulla riecheggia e sovrasta la noia, la futilità, la mancanza di senso. Nell’aria compressa degli spazi chiusi il vuoto interiore si trasforma in una cassa armonica. Ne esce una melodia monocorde, densa, opaca, eppure carica di una  cupa ed inquietante energia. Caterina è una marionetta muta e inespressiva nelle mani di una routine che esce dalla normalità per diventare un’avventura cosmica, un percorso ad ostacoli tra l’amore, il sesso, la morte. La seduzione è uno spirito capace di animare qualunque cosa, persona o circostanza, semplicemente restando sospeso nel silenzio, aggrappato agli sguardi senza fondo di chi parrebbe assente, estraneo persino a se stesso. I personaggi di questa storia hanno la stessa meccanica impersonalità dei demoni: sono ombre corporee che ospitano istinti e magie, partecipando a riti sacrificali, nel ruolo di vittime o di carnefici. Il loro essere rimanda costantemente ad altro, a qualcosa di sfuggente e sconosciuto, che usa la realtà visibile come sfondo materiale dei propri misteri. Il cinema di De Bernardi è uno spettacolo che vive della sublimità e della mostruosità sottintese, nascoste oltre il velo dell’apparenza, affioranti negli ammiccanti stridori della stravaganza, ma, soprattutto, nelle rozze asperità del banale. Giada Colagrande raccoglie l’idea e vi aggiunge una carezzevole patina di morbida femminilità. Non dolce, bensì amara come il veleno. E non calda, perché gelida come il peccato che non procura alcun brivido, ma strappa soltanto un cinico ghigno di compiacimento. Com’è sottilmente suadente, la trascinata pesantezza di questo racconto,  che striscia su un terreno già calpestato dai passi di tanti assassini e corruttori, uomini volgari e donne facili. È la saga di una creatura deforme che si sazia di una tradizione ancestrale di cui perpetua l’incubo, incurante della mancanza di un’identità definita. Aprimi il cuore è, artisticamente, una promessa moderna che pesca nell’antico con audace saggezza. Il piccolo tocco di genio di una Giada Colagrande che, purtroppo, nelle opere successive, non abbiamo più avuto il piacere di rivedere.   

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