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11 settembre 2001

Regia di Youssef Chahine, Amos Gitai, Alejandro González Iñárritu, Shohei Imamura, Claude Lelouch, Ken Loach, Samira Makhmalbaf, Mira Nair, Idrissa Ouedraogo, Sean Penn, Danis Tanovic vedi scheda film

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La recensione su 11 settembre 2001

di FilmTv Rivista
8 stelle

Operazione complessa, forse un po’ velleitaria, inevitabilmente altalenante. 11 registi, 11 minuti ciascuno a disposizione per raccontare dal loro punto di vista l’11 settembre 2001, l’attacco e la distruzione delle Twin Towers di New York, lo shock che ha agghiacciato il mondo. Il film è stato attaccato “al buio”, sospettato di antiamericanesimo prima di essere visto, perché, tra questi 11 registi, uno soltanto è americano, Sean Penn, mentre gli altri fanno “esplodere” la loro percezione dell’evento dai quattro angoli del mondo. Ora, a parte il fatto che il cinema è sempre di più “internazionale” e sempre meno geograficamente connotato, e a parte l’ovvia considerazione che la tragedia delle torri gemelle ha rischiato e rischia tuttora di mettere in gioco la sopravvivenza del mondo, credo che le conclusioni fondamentali sulla nostra cultura siano quelle di Salman Rushdie nel suo ultimo, bellissimo romanzo, “Furia”, scritto su New York e a New York, dove l’autore anglo-indiano si è stabilito. Rushdie, nelle esplosioni di rabbia, insicurezza, delusione del suo protagonista, continua a fargli esclamare che oggi tutti siamo americani, i pakistani, i cinesi, i neri, gli europei, gli inglesi, i latini. Che la cultura e lo stile di vita americani ci hanno ormai assimilati, nel bene (il mito fondante dell’America, idealistico e libertario) e nel male (il dominio, l’uniformità, lo spreco attuali). Se condividiamo questi lucidissimi presupposti, è chiaro che i nomi degli 11 registi scelti per “11 settembre 2001” ci appaiono tutt’altro che ”scandalosi”. Quello che deve interessare è la resa cinematografica dei loro lavori e, perciò, dell’operazione nel suo complesso. Una resa discontinua. Alcuni dei piccoli film sono scontati: quello di Samira Makhmalbaf, che pare l’ennesimo, minimalista esercizio iraniano con bambini; quello di Claude Lelouch, un po’ troppo semplicistico nel collegare la tragedia di tanti con il “miracolo” di alcuni; quello di Youssef Chahine, didascalico e fin troppo narcisistico; quello di Mira Nair, che non riscatta il suo apologo elementare (un mussulmano, creduto terrorista, in realtà è scomparso mentre soccorreva le vittime dell’attentato). Il bosniaco Danis Tanovic lavora a effetto e riesce a scatenare l’applauso del pubblico, l’israeliano Amos Gitai fa un bel pezzo di cinema isterico in piano sequenza ma non convince, il messicano Alejandro Gonzalez Iñárritu ha un’idea molto intensa ma forse troppo rarefatta in un contesto tanto emotivo. Restano i quattro “episodi” migliori. Idrissa Ouedraogo lavora d’ironia, con la sua storia dei ragazzini africani che cercano di catturare Bin Laden per incassare la taglia e, quando gli sfugge, meditano di rapire Bush e chiedere un riscatto. Ken Loach, con rabbiosa memoria, ci ricorda, attraverso le parole e la musica di un esule cileno a Londra, che c’è stato un altro 11 settembre, anche quello un martedì, del 1973: il giorno in cui fu assalito il palazzo del presidente Allende. Sean Penn con disincanto e consapevolezza firma, da vero intellettuale americano, il brano più radicale, dove un vecchio solitario (Ernest Borgnine) alla caduta delle torri vede riapparire la luce e rifiorire il ”giardino” del mito. E infine, Shohei Imamura, da quel Giappone dove la prima atomica scatenò l’orrore, con filosofica saggezza ci racconta quanto sia brutto ormai appartenere al genere umano. Ed è sua l’epigrafe finale, sacrosanta: ”Le guerre sante non esistono“.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 38 del 2002

Autore: Emanuela Martini

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