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Le vacanze di monsieur Hulot

Regia di Jacques Tati vedi scheda film

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La recensione su Le vacanze di monsieur Hulot

di FABIO1971
8 stelle

Secondo lungometraggio girato dal francese Jacques Tati (all'anagrafe Jacques Tatischeff, classe 1907) dopo il successo internazionale di Giorno di festa, e prima, irresistibile apparizione del suo alter ego sullo schermo, quel signor Hulot, figura eccentrica, stralunata ed imperturbabile fino all'eroismo, con il suo impermeabile, il cappellino, la pipa, l'ombrello e la sua goffa mimica corporea, che proprio da Le vacanze di Monsieur Hulot inizierà ad attraversare e sconquassare, con il suo straniante candore e la sua impassibile fierezza, le abitudini ed i riti della società piccolo-borghese d'oltralpe, qui presa di mira, tra le movenze della slapstick comedy e i dardi più affilati e beffardi della satira, durante le ferie estive, ovvero nel periodo più agognato di un intero anno di lavoro e fatiche. Si parte: treni, pullman, macchine, affollati fino all'inverosimile, si dirigono verso i paradisi balneari meta delle vacanze. La destinazione del signor Hulot è l'Hotel de la Plage, a Saint Marc-sur-Mer, sulla costa bretone, dove vi giunge con la sua rumorosa macchinina e dove trascorrerà le sue "amabili" vacanze. Per comprendere, con straordinaria ed intima soddisfazione, la suggestiva potenza comica del cinema di Jacques Tati, basterebbe soffermarsi su questi primi minuti del film, tra gli annunci incomprensibili dell'altoparlante della stazione ferroviaria (con i viaggiatori sballottati da un binario all'altro), o il transito della macchina di Hulot, apocalisse indistruttibile di devastazione sonora, nella quiete dei ridenti e placidi paeselli che lo separano dalla sua meta. L'impatto, liberatorio ed elettrizzante, con il signor Hulot è un'esperienza che non lascia indifferenti: Tati riporta in vita il cinema di Buster Keaton (i gioiellini più primordiali e sgangherati realizzati con "Fatty" Arbuckle), dei fratelli Marx, di Charlie Chaplin, sposandone l'identica aspirazione alla demolizione dell'ordine costituito (e consolidato), dove la grazia gioiosa (e giocosa) della devastazione riesce a trasformarsi in poetica sublimazione della comicità. Fondamentale il ruolo di suoni e rumori nelle dinamiche narrative del film (la porta girevole della cucina dell'hotel, il motore scoppiettante dell'automobile di Hulot), con le melodie sognanti diffuse da radio e grammofoni ed i notiziari politici che paventano crisi di governo e i rischi di una nuova guerra, le frasi smozzicate dei dialoghi, gli schianti, improvvisi ed assordanti, ad esaltare il contrappasso drammaturgico dei silenzi in cui deflagrano le gag (memorabili l'irruzione in macchina di Hulot nella quiete dolente del cimitero, il suo arrivo al campo da tennis, o l'ancor più esilarante sequenza in cui Hulot gioca a ping pong nell'affollata hall dell'albergo) o gli interludi più poetici (il bambino che compra i due gelati) e gli scarti malinconici (la fine delle vacanze, con la mesta partenza dei gitanti). Hulot osserva con l'ingenuo disincanto dei suoi occhi la realtà in cui è costretto a districarsi, imprigionato, lui che si vorrebbe invisibile agli occhi del mondo, in un fisico quasi ingombrante (un "ometto" nel corpo di un "omone" alto, snello ed impacciato), metafora stridente di un cinema di anarchica vitalità, sorretto da una scrittura minuziosa ed impeccabile (lo script, infatti, firmato da Tati insieme all'Henri Marquet che già aveva scritto Giorno di festa e che diverrà prezioso aiuto regista di Tati fino a Playtime, riceverà anche una nomination agli Oscar) e dilatato nei tempi, nei ritmi e nella profondità dello sguardo rispetto ai canoni consolidati di un genere "minore", la commedia, che, attraverso gli scarti grotteschi e stralunati della narrazione, si innalza spumeggiante a scrutare le assurdità e i controsensi del vivere quotidiano.

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