Regia di Maura Delpero vedi scheda film
Anni ’40, Trentino Alto Adige, Lucia vive insieme alla sua numerosa famiglia, in un piccolo paese di montagna. Ad interrompere la monotonia giornaliera arriva Pietro, un soldato di origini siciliane, reduce dalla guerra, impossibilitato a tornare a casa.
Tutto è bianco. Coperto, gelato. Tutto intorno è neve e dentro è freddo. La maestosa opera di Maura Delpero è caratterizzata da un’immobilità persistente. Trasmette, l’errata impressione, che per tutto il tempo, per gran parte del suo svolgimento, non stia accadendo nulla mentre invece tutto accade.
Un orgasmo di vite che si intrecciano, di fatti che succedono, di cose non dette, di poche parole. La massima rappresentazione delle esistenze di uno sperduto paese arresosi allo scorrere del tempo, ai nefasti fatti della guerra; la storia di una famiglia che tenta di non collassare, di non abbandonarsi al dolore della perdita di figli da poco nati ma già destinati alla tomba, e che, al contempo, continua a sperare.
La Delpero ci mostra un mondo antico, andato, perduto. Un modo di cui molti ormai non hanno più neanche il ricordo. Un mondo in cui a contare erano le piccole cose, come quel disco che Cesare, il capofamiglia, ha comprato con i sudati risparmi destinati alla famiglia, e per questo disapprovato dalla moglie, destinata a figliare, dieci le gravidanze portate a termine, e a penare.
La figura femminile ne esce male, ma ben definita. Le donne hanno pochi desideri, quasi univoci: sposarsi e avere figli. Poi, qualche ribelle dai desideri arditi c’è sempre. Così come c’è sempre un convento dove andarsi a rinchiudere. Le donne sono silenti, accondiscendenti, tranne qualche volta: quando tocca difendere il figlio maschio in contrasto con il padre (guarda caso) oppure quando tocca baciare un ragazzo erroneamente creduto timido.
Uno scorcio di vita in mezzo alle montagne innevate. Una casa piccola per una famiglia ingombrante. Stanze piene di letti, di discorsi bisbigliati, di voglie incontenibili. Stanze proibite, conquistate. Pochi luoghi oltre a quelle stanze. La scuola, il bar del paese e poi i campi. Sconfinati.
Vermiglio è un modo di essere, un modo di agire, anche davanti alle peggiori sciagure. Il tono sommesso con cui si apprende il motivo per cui Pietro, tornato in Sicilia ad avvisare i parenti di essere ancora vivo appena il termine della guerra lo ha permesso, non dà più notizie da troppi giorni. Sembra svolgersi tutto dentro. Esternare un’emozione non è contemplato, sarà per questo che, alla fine, non emoziona neanche chi guarda.
Nota di merito al cast. Molti degli attori scelti sono quasi sconosciuti, anche se non si direbbe per l’intensità che hanno di immolarsi al servizio dei personaggi che interpretano. Non considerando Tommaso Ragno (Cesare) che dimostra, ancora una volta, di essere uno dei migliori attori italiani del nostro tempo.
Non lo so se questo film mi è piaciuto ma so che è un film che consiglierei. Per tutto il tempo ho avuto come l’impressione di osservare un quadro. La fotografia di Vermiglio è indubbiamente la grande protagonista di questo affresco; viene ulteriormente esaltata dalle inquadrature della Delpero che seppur spesso a discapito dei paesaggi circostanti, eleva i dettagli alla massima espressione.
Un film che mi ha coccolato pur non emozionandomi. Mi ha stupito e, in parte, sorpreso. Senza dubbio uno dei migliori prodotti degli ultimi anni.
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