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Il rito

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Il rito

di Aquilant
8 stelle

Hans Winkelmann (Gunnar Björnstrand), è assennato, ragionatore, paziente, l’anima del gruppo, freddo calcolatore sempre pronto a compromessi vari anche di natura estremamente ambigua. Sebastian Fisher (Anders Ek), è un personaggio al limite del parossismo, irresponsabile, che non ha bisogno di alcun Dio ma provvede a fornirsi da sé i propri angeli e demoni. Poco più che un morto vivente, a dire il vero. Tea (Ingrid Thulin), ”antenna parabolica per i misteriosi segnali che provengono dalle stazioni trasmittenti extraterrestri”, passa ore ed ore a guardarsi le palme delle mani in cerca di stimmate e finge in estasi colloqui con Maria Vergine, giocando alla fede ed alla mancanza di fede, ma sempre presente a sé stessa, a volte incredibilmente tragica, a volte incredibilmente ilare.
Personaggi che danno vita ad un febbrile ed allucinato kammerspiel completamente stipato di conflitti psicologici ad una temperatura perlomeno di quaranta gradi all’ombra, tutto giocato su forti contrasti verbali e ricco di primi e primissimi piani che pongono completamente con le spalle al muro i quattro protagonisti, evidenziando in modo palese ed incontrovertibile le reciproche debolezze, gli smarrimenti, le disarmonie esistenziali. In altre parole un baluginare frenetico di fantasie malate che si ritraggono a turno per porsi poi nuovamente in evidenza in aperto e vicendevole conflitto. Bergman stavolta ci riserva un esercizio per cinepresa e quattro attori, ovvero una pietanza di (im)puro gusto teatrale, una sorta di terzo grado effettuato senza ritegno alcuno da un’inclemente macchina da presa che lungi dall’accontentarsi di documentare una vicenda già di per sé malsana, da intendersi come metafora di una serie di patologie distruttive della ragione, continua ad aggiungere tensione su tensione ritagliando quasi sinistramente le figure su uno sfondo di penombra ed accompagnandole per mano nella loro corsa in direzione di una completa deriva dei sentimenti.
Per sua stessa ammissione Bergman trasfonde la propria personalità in parti uguali su tre personaggi che si trincerano dietro a finzioni compenetrandosi in un continuo gioco delle parti, avvolgendosi in cortine di fumo, accumunati da un unico denominatore, ovvero da una forma acuta di autodistruttivismo che si palesa ad ondate, insinuandosi e ritraendosi di continuo e determinando estenuanti schermaglie dialettiche a seconda delle circostanze.
In particolare il regista lega Thea, il personaggio femminile, a doppia mandata con la Karin di “Come in uno specchio” continuamente alle prese con il Dio ragno, con l’Agnes di “Sussurri e grida”, sospesa a metà strada tra la vita e la morte, con l’enigmatica ed androgina Manda del “Volto” e con l’altrettanto ambiguo “Ismael” di “Fanny e Alexander”, dagli arcani poteri parapsicologici.
“Questi tre personaggi sono indissolubilmente uniti, non possono fare a meno l’uno dell’altro e non possono funzionare a due a due,” scrive Bergman. “è soltanto nella tensione fra i tre vertici del triangolo che può nascere qualcosa. C’era un ambizioso tentativo di sezionare me stesso, per raffigurare come io in realtà funzionassi. Quali forze mantenessero in moto la macchina.”
Il presente “Rito” va inteso come una specie di incubo kafkiano in cui si assiste ad un vero e proprio ribaltamento, o meglio ad processo di omogeneizzazione del rapporto accusatore-vittima, laddove ad essere schiacciato dalla soffocante macchina burocratica è stavolta la parte inquirente, coinvolta in un processo di revisione critica della propria capacità raziocinante che con inesorabile gradualità lo porta prima ad indirizzarsi in un confessionale, ove lo stesso regista calato nell’inedito ruolo di sacerdote è costretto a prestare orecchio ad una serie di disperanti lamentazioni pseudo-esistenziali inconsuete in chi non è aduso a trovare rifugio nella fede (“Dio mio, Dio mio, salda la mia anima prima che si perda in niente!”), e successivamente a soccombere inevitabilmente, vittima della propria violenza e di un zelo persecutore che non regge l’onere della prova a carico degli accusati, lasciando trasparire tra le righe una palese assoluzione. Emerge con evidenza la serrata polemica autoriale nei confronti della censura e della morale comune più in generale, con l’intera giustizia derisa e messa alla berlina nella figura di un giudice che più inetto di così si muore. Il regista dà fondo alla sua creatività ancora repressa, non mancando di interrogarsi sul preciso ruolo dell’arte, tra dialoghi serrati, incessanti, di evidente impianto teatrale, tesi a creare un quadro complesso ed omogeneo sulle metastasi della mente che affliggono il genere umano. E di conseguenza l’essere bergmaniano si trova ormai di fronte ad una strada senza uscita, vittima della propria idiosincrasia per qualsivoglia tipo di contatto umano, indotto a vivere al chiuso della propria isola al contatto con gli incubi ed i fantasmi quotidiani già ridestati irrimediabilmente nella fatidica ora del lupo. Costretto suo malgrado a fronteggiare un mondo da incubo che continua incessantemente a comprimersi e restringersi attorno alla sua persona senza più concedergli alcun spazio vitale neppure per le sue nevrosi.

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