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Dov'è la casa del mio amico?

Regia di Abbas Kiarostami vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Dov'è la casa del mio amico?

di kosmiktrigger23
10 stelle

Questo film di Abbas Kiarostami  si apre a molte suggestioni di interpretazione. I numerosi e approfonditi post che sono stati dedicati ad esso ne sono una conferma. Forse nessun regista moderno invita alla riflessione critica come Kiarostami, visto il carattere astratto del suo cinema e l'attitudine profondamente investigativa nei confronti della realtà in quanto prodotto filmico operata dalle sue scelte registiche. Non potendo esaurire in una semplice recensione il caleidoscopico mondo racchiuso anche in questo singolo film, mi soffermerò soltanto su un paio di punti che sembrano essere dominanti nelle riflessioni dei miei colleghi di sito.

Innanzitutto, il problema del realismo e del rapporto col cinema italiano neorealista. Io sarei di questa opinione: di sicuro il neorealismo è il terreno di coltura del cinema di Kiarostami; in questo senso: è propria di Kiarostami l'attitudine a considerare il cinema come un elemento in un rapporto quasi agonistico con la realtà, un continuo misurarsi da parte delle pretese di controllo autoriali sull'opera d'arte con le istanze dispersive, eccentriche, aleatorie offerte dallo spazio, dagli attori, dal dialogo.

Ciò detto, Kiarostami è un autore post moderno. Kiarostami utilizza a piene mani elementi che difficilmente possono essere ricondotti al neorelismo: ad esempio, il recupero dell'antico modulo poetico della differenziazione mediante la ripetizione (l'ascesa della collina, il reiterarsi delle domande del protagonista, etc.) che non mi pare che faccia parte del patrimonio neorealista. Da questo modulo poetico nasce una predilezione per l'incongruenza del dettaglio rispetto alla linea narrativa: il film si apre con l'inquadratura di una porta, e il tema delle porte e delle finestre percorre tutti i dialoghi, e anzi fornisce il pretesto per il monologo nostalgico / filosofico del vecchio che accompagna il bambino a casa al termine delle sue peregrinazioni. Penso di poter affermare che l'eterogeneità di questo tema rispetto alle esigenze narrative della trama abbia una molteplice funzione: da una parte è un simbolo della tematica portante del fim, cioè l'esclusione da una comunità di un soggetto debole e isolato, dall'altra permette di cogliere un aspetto marginale della realtà rispetto alla trama e di farne un mezzo per introdurre personaggi e situazioni rivelatrici. Infine, compiuto quest'ultimo passo, la tematica delle porte rivela se stessa nella sua natura straniante, ponendo l'oggetto del film fuori dal film stesso e iscrivendo a pieno titolo Kiarostami nel novero degli autori post moderni.

Il secondo punto su cui vorrei soffermarmi brevemente è il contenuto etico del film, che in parte è connesso con l'impiego di attori non professionisti. I Nella maggior parte dei post che ho letto la velenza etica positiva del film è legata al realismo della messa in scena. Posso essere d'accordo: nessuno dotato di un minimo di buon senso potrà negare l'assoluta, commovente purezza dello sguardo del protagonista. La sensibilità di Kiarostami nel coglierla è un merito indiscutibile del regista, come, tra il serio e il faceto, riconosceva Moretti nel suo celebre corto sulla prima di "Close Up", altro capolavoro (problematico) del maestro iraniano.  Ma questa spontaneità, comune a tutti gli interpreti di questo film, ripeto, assolutamente straordinario, deriva forse dall'assunto neorealista della commistione tra attori non professionisti e attori professionisti? No. A questo proposito, vorrei porre l'attenzione sulla scena - all'inizio del film - in cui  Mohammad Réza cade e il protagonista lo aiuta a rialzarsi. Per un breve momento, conservato nel montaggio del regista a ragion veduta, lo sguardo de giovane ragazzo vaga nel vuoto incolmabile tra lo sguardo in macchine e l'oggetto dello sguardo prescritto dalla sceneggiatura. Questa incertezza si ritrova in tutto il cinema di Kiarostami, ma riceve nella scena che ho citato un'evidenza plastica perfetta. Nel neorelaismo non troviamo una simile incertezza dello sguardo (la troviamo nei documentari).

Arriviamo, così, allo statuto etico del protagonista. Che sia una figura odissiaca è sin troppo facile rilevarlo. Ma in che senso? proprio nel fatto che noi percepiamo come profondamento etico il suo atto finale (copiare i compiti sul quaderno dell'amico) solo in relazione al fallimento del suo proposito (umanista) di rimediare all'errore. Se lui avesse deciso immediatamente di imbrogliare, difficilmente la sua innocenza si sarebbe salvata. Dunque, lui è superiore alla morale comune (la madre, il nonno, etc.) non in virtù della sua natura innocente, ma in virtù del suo fallimento, che gli consente di travalicare i limiti imposti alla "buona volontà" (che per altro ci ha messo, povero sfigato).  Si conferma dunque qui il rapporto analogico tra rinuncia registica sul controllo della realtà e valenza etica: nel senso in cui l'atto del protagonista prescelto dal regsita è esso stesso svincolato rispetto alla narrazione,

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