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Ragazze in uniforme

Regia di Léontine Sagan vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Ragazze in uniforme

di spopola
8 stelle

Ragazze in uniforme trae spunto da un romanzo e un dramma originale straordinariamente audace per l’epoca, Ieri e oggi – Gestern und Heute - di Christa Winsloe (alias baronessa von Harvany, lesbica dichiarata e famosa per la sua relazione con la  giornalista Dorothy Thompson e poi per essere stata moglie di Sinclair Lewis) ed è giustamente considerato il primo film della storia del cinema che ha una esplicita e “centrale” tematica omosessuale virata al femminile nelle vicende narrate, ancora più notevole e importante come “testimonianza” vibrantemente sentita,  perché realizzata con un lavoro di equipe concepito e maturato (scrittura, direzione, produzione e interpretazione) in un contesto formato praticamente di sole donne o quasi (sceneggiatura rielaborata dalla stessa Winsloe con la collaborazione di F.D. Andam e  regia di Leontin Sagan che aveva già realizzato una edizione teatrale del testo) se si esclude la presenza di Carl Froelich per la supervisione generale, ma che si occupò principalmente della parte tecnica e del montaggio.
Il risultato, è una pellicola di rara intensità e di coraggioso anticonformismo che sfrutta le risorse del linguaggio cinematografico, nella fase di sperimentazione del sonoro, con una competenza e una raffinatezza davvero fuori dal comune.
Viene inserito generalmente nella corrente della neue Sachlichkeit proprio per il taglio realistico e l’asprezza di una esplicita denuncia delle contraddizioni “totalitarie”dell’epoca, con cui la regista riesce a coagulare in un solo blocco tematico, concentrando lo sguardo sullo scottante tema della diversità sessuale, la sua fondata critica verso la repressiva educazione protestante che è all’origine del clima fortemente oppressivo dell’ambiente e  che esprime parallelamente anche il rifiuto sistematico ed esplicito delle regole “impositive”di quell’autoritarismo militaresco prussiano, già in forte odore di nazismo, e al quale preparerà il terreno.
Ragazze in uniforme (il Kracauer ha inserito il titolo fra le importanti opere - che lui aveva definito le timide eresie degli anni immediatamente precedenti l’avvento della deriva hitleriana – inquiete e premonitrici, di autori come Jutzi, Oswald e Ophüls) è anche una delle ultime, straordinarie pellicole realizzate durante la Repubblica di Weimar (1919-1933), negli anni in cui l’omosessualità, in particolare a Berlino, visse un “irripetibile”,  fulgido momento, rintracciabile anche  sullo schermo (ce lo ricordano, dandocene ampia documentazione, sia Vito Russo che Vincenzo Patanè).
Come ben sappiamo infatti, è proprio al 1919  che risale il celebre  Anders als die Andern (Diverso dagli altri)  diretto da Richard Oswald e interpretato dal famoso Conrad Veidt, riconosciuto universalmente come il primo titolo in cui l’omosessualità viene discussa apertamente al cinema e che contiene per altro in embrione molte delle questioni che verranno successivamente sollevate e rivendicate dal movimento di liberazione gay. Realizzato con il supporto operativo del Dottor Magnus Hirschfeld  e del suo Istituto per la Scienza Sessuale, fu sostenuto dallo stesso  medico nella delicata fase della distribuzione in sala, proprio al fine di cercare di ottenere tolleranza nei confronti del “terzo sesso”, come allora veniva chiamata la “diversità sessuale” di genere. Ripartendo proprio dal volume di Vito Russo Lo schermo velato, mi sembra importante a tale proposito  - e non credo di uscire fuori tema, perché è fondamentale per ricordare il clima dell’epoca - riportare i brani - preceduti per altro dai seguenti versi di Goethe: “Si tengono sacrifici / non di agnelli o di tori, / sono sacrifici umani / come mai ce ne sono stati.” - tradotti dal programma originale di sala che veniva distribuito durante le proiezioni del film : Le false credenze e i pregiudizi ingiustificati nei confronti di un tipo di comportamento sessuale maschile e femminile conosciuto come omosessualità, o come amore fra le persone dello stesso sesso, sono stati fino ad oggi predominanti e ancora adesso influenzano gran parte della popolazione. Uomini e donne omosessuali, attratti quindi da persone del proprio sesso, vengono spesso considerati come malvagi criminali o libertini. Ma le ricerche scientifiche hanno dimostrato che l’omosessualità è una tendenza innata per cui l’individuo non ha responsabilità; che in Germania, come in molti altri paesi, una persona su trenta ha tendenze omosessuali; che ci sono omosessuali in ogni classe sociale (fra i colti e gli ignoranti, nei ceti più alti e in quelli più bassi della popolazione, nelle grandi città  e nei paesi, fra i rigidi moralisti e fra le persone più aperte e tolleranti); e infine che l’amore per una persona del proprio sesso può essere puro e nobile come l’amore per una persona dell’altro sesso, perché la sola differenza è l’oggetto del desiderio, non la natura dell’amore. Di fronte a questi fatti, è quindi tanto più grave che nell’Articolo 175 del Codice penale tedesco, gli uomini omosessuali (e in Austria anche le donne omosessuali) subiscano la minaccia di pene vergognose per mezzo delle quali sono esposti pubblicamente come fuorilegge e siano soggetti a una pesante oppressione. A causa di questa situazione, un grande numero di persone è stato spinto, per la vergogna, alla disperazione e persino alla follia e al suicidio. Il Comitato scientifico umanitario, fondato nel 1897, e il dottor Magnus Hirschfeld, al tempo stesso instancabile e coraggioso direttore e consigliere medico del comitato, si sono assunti il compito di fare abrogare l’Articolo 175  e di eliminare i falsi pregiudizi contro l’omosessualità attraverso un’opera di sensibilizzazione del pubblico. “Anders als die Andern“ evita ogni sensazionalismo ed è uno strumento particolarmente importante per raggiungere questo obiettivo. Prendendo ad esempio un destino individuale, ci mostra infatti come le persone  che hanno queste tendenze siano costrette a soffrire senza motivo, come vengano sfruttate dai loro oppressori  e come, a causa del rifiuto della società  e del maledetto Articolo 175,  gli omosessuali vengano spinti alla disperazione e al suicidio. (…) Il problema che  oggi viene posto  davanti ai vostri occhi  e alle vostre anime con questa pellicola, è un problema di estrema  importanza e di estrema difficoltà. E’ difficile, perché il livello di ignoranza e di pregiudizi da cui ci si deve liberare è enorme. E’ importante però, perché non dobbiamo soltanto cancellare  l’immeritata vergogna  che circonda questi uomini, ma dobbiamo  anche cancellare  un generale errore di giudizio, che può essere paragonato a quelle atrocità della storia che sono state le persecuzioni delle streghe, degli atei e degli eretici. Inoltre, il numero delle persone “diverse dagli altri” è molto più grande di quanto  la maggior parte dei genitori sappia o si curi di sapere. (…) Il film che vedrete per la prima volta oggi vi aiuterà a colmare questa lacuna  di comprensione e presto verrà il giorno in cui la conoscenza vincerà la sua battaglia contro l’errore, la giustizia sconfiggerà l’ingiustizia e l’amore umano prevarrà sull’odio e sull’ignoranza degli individui.
Del film, ovviamente fortemente avversato dal potere e dall’oscurantismo repressivo del pensiero (Christopher Isherwood ci ricorda nel suo libro di memorie,  che molte delle proiezioni programmate vennero interrotte violentemente dai nazisti  e che a Vienna uno di loro sparò verso il pubblico, ferendo molti spettatori) è rimasta “fortunosamente” solo una copia, per altro molto frammentaria e incompleta (grazie a Fuori Orario di Ghezzi l’abbiamo potuta visionare anche noi proprio di recente, e comprenderne appieno l’importanza e il valore) quasi miracolosamente “resuscitata” dal rogo sistematico fatto di tutte le bobine circolanti, proprio negli anni ’30, mentre invece niente ci è purtroppo pervenuto del remake girato nel 1927 dagli stessi Hirschfeld e Oswald, dal titolo Gasetze der Liebe. Dello stesso periodo, analogamente fondamentali, sono anche Geschlecht in Fesseln: die Sexualnot der Gefangenen di William Dieterle, 1928  (un film che attacca  il sistema penale  e descrive l’omosessualità come una componente della vita del carcere) e l’eccellente  Desiderio del cuore (Mikaël) 1924  del danese Carl Theodore Dreyer, tratto dal libro omonimo di Hermann Bang, e “indirettamente” ispirato alla vita dello scultore Auguste Rodin  che era stato all’origine anche di un altro grande capolavoro di qualche anno prima: Vangarne (1916) dello svedese Mauritz Stiller, dove il protagonista è effettivamente uno scultore, con conseguente esibizione di moltissimi nudi maschili in una atmosfera fortemente omoerotica.
 
Ritornano a Ragazze in uniforme e alla sua importanza non solo documentale, ma anche artistica,  va ricordato, visto che è del 1931, che se è probabilmente il primo titolo che ha il suo fulcro narrativo proprio sul lesbismo, era comunque già stato preceduto nel 1929 dalla presenza di un personaggio lesbico sulla scena cinematografica, in un film derivante da Wedekind: mi riferisco al capolavoro di G. W. Pabst, Lulu (Die Büchse der Pandora), in cui c’è già l’importante presenza di una figura portatrice di questa particolare sessualità, quella della  Contessa Geschwitz (che ama perdutamente Lulu e che per aiutarla, si sottomette a un uomo malvagio in un clima di ricatti senza fine), dove appunto il regista analizza questa “specifica personalità” femminile con una vasta gamma di toni, curando con “speciale” attenzione l’interpretazione di Alice Roberts (l’attrice che ne veste i panni)  in modo da farne un personaggio molto credibile e “umanamente” consistente: benché l’amore che la contessa prova per Lulu  venga chiaramente considerato “sterile” sia nel dramma di Wedekind che nel film da esso ricavato, costituisce comunque e in tutta evidenza,  un elemento fondamentale dell’azione proprio nella definizione della modalità in cui può estrinsecarsi l’abnegazione della passione saffica. Pabst ebbe, proprio per questo, notevoli difficoltà a convincere la Roberts ad accettare il ruolo a causa del tutt’altro che peregrino pericolo che il pubblico potesse identificare la vita privata di una attrice con il personaggio che interpreta in un film, soprattutto se ha caratteristiche tanto stigmatizzanti come questo. E’ la stessa Louise Brooks/Lulu che ci ricorda così quei momenti e quei patemi d’animo (conversazione del 1974  con il cineasta  Richard Leacock, rintracciabile in un filmato conservato  al Museum of Modern Art di New York):  “Alice Roberts era preparata a interpretare  solo una donna repressa e abituata a portare abiti di taglio maschile. Il primo giorno di lavorazione per lei consisteva nella scena del matrimonio. Arrivò sul set  molto elegante  nel suo abito da sera  di Parigi e aristocraticamente padrona di sé. Poi Pabst  cominciò a spiegare l’azione della scena in cui lei avrebbe  dovuto ballare il tango  con me. Improvvisamente  lei si rese conto che avrebbe dovuto toccare e abbracciare un’altra donna, mostrarle apertamente il suo amore. Gli occhi azzurri le si gonfiarono di lacrime, e le mani cominciarono a tremarle. Prevedendo la sua reazione, Pabst la prese per un braccio  e la portò in fretta dietro il set, fuori dai nostri sguardi. Mezz’ora dopo, quando tornarono, lui le stava sussurrando qualcosa in francese  in un orecchio e lei sorrideva come se fosse stata la star del film… e fu effettivamente la star  in tutte le scene con me. Sia nelle sequenze in cui comparivamo entrambe , sia nei primi piani, lei faceva scivolare il suo sguardo verso Pabst che fuori campo pareva corteggiarla…”.
Questo, per far comprendere ancor di più il coraggioso impegno soprattutto delle due straordinarie interpreti principali di Ragazze in uniforme, Herta Thiele e Dorothea Wieck, perché effettivamente  nel film tutto  è dichiarato a chiare lettere e niente può venir considerato solo “ambiguamente sottinteso”: il rapporto fra la quattordicenne Manuela e l’educatrice,  è profondo e “ricambiato” e i sentimenti della fanciulla e della donna vengono espressi senza  reticenza in moltissime circostanze, il tutto sottolineato e reso ancor più palese oltre che dai dialoghi intrisi di “innamorate” allocuzioni abbastanza esplicite, anche dagli sguardi (la comunicazione non verbale che non consente “fraudolenze”), e  trovano il loro naturale sbocco proprio nella inequivocabile  dichiarazione in pubblico della particolare natura del sentimento che lega le due ragazze.
L’organico lavoro di definizione delle psicologie non solo delle tre importanti figure che determinano il dramma che comprende anche la tirannica direttrice del convitto (il film impressiona anche oggi per l’osservazione appassionata di un ambiente, la vena erotica che affiora  al di là del tatto e della sensibilità della narrazione e della messa in scena), può essere dunque esteso a tutte le ragazze del pensionato femminile, la cui nascente sensualità  in fermento, viene espressa, spesso anche simbolicamente,  attraverso un delicato uso della fotografia, che si sofferma frequentemente sui loro volti  soffusi di una luce capace di esaltarne l’innocenza in “movimento”, o nelle scene in cui vengono riprese a sfogliare con acceso, intenso e voglioso interesse, alcuni libri, pur proibiti in collegio, con le foto dei divi del momento, o che riproducono il malizioso dipinto di Fragonard conosciuto come Il chiavistello.
Nel film però il tema dell’omosessualità è tutt’altro che fine a se stesso: costituisce infatti il mezzo implicito (il “grimaldello”) per mettere in crisi l’istituzione morbosamente conservatrice che lo considera un vero e proprio “pericoloso” corpo estraneo da neutralizzare: non a caso la ragazza verrà isolata dal resto della comunità  e messa in infermeria, giacché l’omosessualità era ancora considerata alla stregua di una malattia, o peggio di un “vizio” perverso da cui difendersi e preservarsi.
Si può dire allora che l’omosessualità è prima di tutto raccontata come una appassionata dichiarazione in difesa della liceità dell’amore in qualunque forma si manifesti, e quindi  “anche  di quello che nasce fra due persone dello stesso sesso” che possiede però anche una forte valenza più dichiaratamente  “politica”, in quanto, come già accennato, implica conseguentemente una “infrazione al codice” che intende essere anche un rifiuto e una rivolta verso un militarismo autoritario di matrice prussiana, prioritaria matrice del nazismo. L’omosessualità, e più in generale l’amore  dunque, che come sottolinea Patanè, diventa anche un fattore di contestazione sociale e di rivolta, come sarà due anni dopo per “Zero in condotta”  di Vigo e – in minor misura - , per “Du er  ikke alene”, due titoli con i quali il film della Sagan  condivide anche l’ambientazione collegiale, un habitat che in Ragazze in uniforme assume caratteristiche e forme fortemente – e terribilmente – vessatorie: le ragazze, quotidianamente sottoposte ad una ferrea  disciplina in base alla quale devono spesso marciare militarmente, sono costrette ad indossare una goffa tuta a strisce (che ricorda molto da vicino quella dei carcerati) che le spersonalizza e intende renderle anonime e “asessuate”. Tutto insomma  affinché possano diventare poi “ottime spose” e altrettanto “esemplari madri” di futuri soldati ligi al dovere.
Attrice e regista di origine teatrale, la viennese Sagan era stata allieva e collaboratrice di Max Reinhardt, e questo suo primo exploit cinematografico di una carriera “recisa” sul nascere, è anche il risultato più rilevante: esule dalla Germania dopo l’avvento di Hitler (più o meno con tutta la compagnie del film) non riuscirà più a toccare le vette raggiunte con questa sua pellicola d’esordio molto riuscita e interessante anche dal punto di vista stilistico, con immagini raffinate e sottilmente pervase di riferimenti simbolici che racconta, non negando “la diversità”, proprio lo sbocciare della sensualità nelle adolescenti, e lo fa con una delicatezza di tocco che il cinema non ritroverà tanto facilmente (Lourcelles), fornendo così un quadro semplice e drammatico di un ambiente ben determinato che si trasforma in un’opera di straordinario impatto nonostante che utilizzi un linguaggio che ha ancora molti debiti verso il cinema muto.
Particolarmente apprezzato all’epoca (ma con molti distinguo e altrettante censure) fu considerato in Germania “miglior film dell’anno” e la critica fu unanime nel lodare la misura  e l’eleganza della narrazione di questo dramma sociale e di protesta. A alla mostra del Cinema di Venezia dove fu invitato a partecipare, riscosse ampi consensi (fu comunque a quanto sembra, principalmente apprezzato per la misura  e l’eleganza della narrazione, pure fondamentale, ma che ha il suo principale punto di forza nell’analisi delle psicologie femminili cui regia, fotografia ed una interpretazione di grande finezza contribuiscono concordemente, quasi senza cedimenti).
Goebbels naturalmente non gradì, e  dopo aver condannato apertamente la pellicola, pretese, prima di mandarla “definitivamente al rogo”, la creazione di un finale posticcio ad hoc,  più conciliante e soprattutto meno “definitivo”. Del film ne circolano in effetti due versioni (non so quale di queste arrivò a Venezia, ma penso che sia stata quella della “revisione” goebbelsiana, che è poi ciò che più frequentemente capita di incontrare in giro: l’originale, come per altro la versione teatrale, prevede che alla fine la ragazza muoia sfracellata ai piedi della direttrice, mentre nell’altra più “accomodante”, viene salvata in extremis dalle compagne e dall’istitutrice, mai tiratasi indietro o fattasi intimorire dalle regole autoritarie del convitto, anche durante la forzata detenzione in infermeria della ragazza, che sarà all’origine della sua azione suicida davvero “inevitabile” per come è articolata la storia e per esprimere la definitiva condanna non del lesbismo,  ma della repressione a cui è sottoposto il conseguente, “naturale” impulso sessuale.
Anche negli Stati Uniti d’America il film ebbe una vita complicatissima: trasformato tout court e inopinatamente in un dramma sociale antimilitarista fortemente “snaturato”, fu censurato in più parti e  reso praticamente “irriconoscibile”. Fra gli interventi più drastici, quelli imposti ai dialoghi, che fecero sparire completamente la frase di Manuela dolce e delicata, ma che evidentemente faceva ugualmente paura per i sottintesi che lasciava intravedere, “la sera quando lei mi da la buona notte ed esce dal mio letto e chiude la porta, devo sempre fissare la porta dell’oscurità per ritrovare la sua immagine, e mi viene voglia di alzarmi e andare da lei, raggiungerla di nuovo, ma questo purtroppo non mi è permesso e quella più celebre ed esplicita della  Fräulein che “sfida” così la  direttrice: quello che lei definisce peccato io lo chiamo il grande spirito dell’amore che può assumere mille forme. Boicottato anche nella distribuzione il film fu “riabilitato” e reso finalmente disponibile grazie all’intervento della moglie del Presidente Roosvelt, Lady Eleanor.
 
Il film, vanta ben tre remake di scarsissimo interesse. Il primo è un film messicano del 1951 (Muchachas  de uniforme di Alfredo B. Crevenna). C’è poi quello con lo stesso titolo del 1959 diretto da Géza von Radvànyi con Lilly Palmer, Romy Schneider e Christine Kauffmann (dove si perde totalmente la forza politica del film della  Sagan poiché le due donne lasciano volontariamente la scuola e la direttrice alla fine è molto più addolcita e conciliante) assolutamente irrilevante. Più recente è infine l’altrettanto mediocre  Loving Annabelle (2006, Catherine Brooks). Da segnalare invece, tra i tanti altri film che ricalcano una situazione analoga, l’ottimo Olivia, diretto da Jacqueline Audry nel 1951 e tratto  dal romanzo omonimo di Dorothy Strachey pubblicato nel 1949.

Sulla trama

Berlino. A Postdam un pensionato femminile accoglie le figlie degli ufficiali indigenti. L’ultima arrivata, l’orfana Manuela von Meinhardis, si trova immediatamente a disagio in un ambiente governato dalla rigida disciplina imposta dalla vecchia direttrice che sostiene che l’educazione delle ragazze deve poggiare su “fame e disciplina”, regolato da consuetudini militaresche e chiuso a ogni influenza esterna.
La sua ancora di salvezza è l’istitutrice, la gentile signorina von Bernburg, che la prende in simpatia. Il sentimento che le unisce è naturalmente più “forte” e profondo di quello imposto dalle regole e dalle convenzioni
Supportata dall’istitutrice, Manuela partecipa così alla recita del Don Carlos di Schiller e si fa onore sulla scena. Tanto è il suo entusiasmo per il successo ottenuto, che non solo si abbandona e manifestazioni di gioia particolarmente disdicevoli in quell’ambiente, ma confessa anche all’istitutrice di essersi innamorata di lei. La direttrice punisce così Manuela con l’isolamento. Disperata, non vedendo altre vie d’uscita, la ragazza si uccide allora gettandosi dalla tromba delle scale. Gli sguardi minacciosi delle altre internate e della stessa istitutrice, impediscono però alla direttrice, subito accorsa, di avvicinarsi al corpo, mentre nella caserma adiacente la tromba suona il silenzio. L’ultima scena vede la tirannica direttrice scomparire nel buio di un corridoio, mentre il volto della  Bernburg è radiosamente illuminato.
Nella versione alternativa voluta da Goebbels con finale meno tragico più frequentemente circolante, almeno qui in Italia, il suicidio è solo tentato, ma a parte questo, tutto il resto rimane poi invariato.

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