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Scene di caccia in Bassa Baviera

Regia di Peter Fleischmann vedi scheda film

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La recensione su Scene di caccia in Bassa Baviera

di Peppe Comune
8 stelle

In un paese rurale della Bassa Baviera vive una comunità di contadini dedita al lavoro dei campi, alla cura degli animali, alle funzioni in chiesa e ai pettegolezzi acidi che si scambiano a vicenda. Soprattutto Abram (Martin Sperr) diventa l’oggetto principale della loro gretta chiusura mentale. Abram è un giovane meccanico che è ritornato in paese dopo un certo periodo trascorso in città. Si dice che sia omossessuale e che abbia scontato dei mesi di carcere per atti osceni e offesa al pubblico pudore. Dicerie a cui tutti credono senza indugi, anche la madre (Else Quecke), che preferisce accodarsi al senso comune dominante piuttosto che difendere l’integrità morale e fisica del figlio. Solo due persone gli mostrano un po’ di inconsapevole compassione : Ernst (Johann Lang), un povero disgraziato che inizia ad essere guardato con sospetto proprio per il suo attaccamento ad Abram, e Hannelore (Angela Winkler), la serva del borgomastro che è l’oggetto sessuale di tutti gli uomini del paese.

 

 

 

“ Scene di caccia in Bassa baviera” è il primo e unico film di Peter Fleischmann, tratto dal dramma omonimo di Martin Speer che ne interpreta anche il ruolo principale. Sono diversi i film tedeschi (di ieri e di oggi) che sono nati con la chiara intenzione di esaminare quegli aspetti della natura umana che sempre rendono possibile il sorgere e il conservarsi del male praticato dall’uomo contro un suo simile. È un tratto tipico del cinema tedesco quello di fare continuamente i conti con la propria storia più o meno recente (con l’esperienza nazista in particolare), anche al di là di una rappresentazione “verista” di quei fenomeni di matrice socio-economica che possono rappresentarne le premesse più dirette. Sotto questo punto di vista, “Scene di caccia in Bassa Baviera” rappresenta a suo modo un film seminale, un’opera che si erge come una perturbante riflessione sulla natura umana tutta giocata sull’incontro-scontro tra l’armonia lavorativa che ogni singolo personaggio instaura con l’ambiente circostante e l’emergere sistematico dei loro più bassi istinti. Emblematico, a mio avviso, è il fatto che viene smontato sul nascere il “quadro idilliaco” della pacifica serenità bucolica. All’iconografia classica (soprattutto di stampo pittorico visto il titolo) incentrata sulla mitezza del mondo contadino, sullo spirito comunitario che prenderebbe nettamente il sopravvento su ogni tipo di accidente esteriore, si sostituisce una consorteria di malelingue che sembra provare il massimo godimento possibile nel far diventare i più deboli gli oggetti deputati al pubblico dileggio.

Il film inizia in chiesa, con brevi stacchi di macchina che passano in rassegna uno alla volta i volti dei fedeli i quali, nel mentre recitano l’omelia in latino, danno mostra di provare molto piacere a spettegolare sui loro prossimi. Fuori la chiesa la cosa appare ancora più evidente, con le lingue che sputano veleno piuttosto che dimostrarsi degne della cerimonia ecclesiastica cui hanno appena assistito. È così che Peter Fleischmann ci fa entrare nel clima torbido del film e subito ci fa fare la conoscenza di questa comunità di contadini molto timorata di Dio ma poco incline a mettere in pratica anche i precetti cristiani più elementari. Ogni discorso è venato di allusioni sessuali, ogni parola veicola acrimonia verso gli altri, ammonimenti da elargire a terzi, moralismo da imporre a tutti. Anche i bambini sono iniziati da subito alla pratica delle calunnie, anche loro si rendono partecipi della gratuita esposizione della cattiveria umana. Gli adulti li assecondano senza osteggiarli, indicandogli la “via maestra”, come se si trattassero di piantine che occorre innaffiare con cura e perseveranza se si vuole che diventino degli alberi alti e robusti. I tipi come Abram sono portatori di un’alterità caratteriale neanche troppo marcata, ma sufficiente a rinsaldare lo spirito di corpo, a far si che la complicità funzionale tra i paesani si rinsaldi in ragione di un nemico comune da avversare. Si prenda il caso di Hannelore, una ragazza maltrattata da tutti e di cui tutti hanno abusato sessualmente. Basta solo il sentore di un’offesa fattagli da Abram perché la ragazza, da un oggetto da manipolare a comando, diventi il simbolo dell’innocenza violata, una compaesana da difendere ad ogni costo contro un reietto umano come lui, un agente estraneo ai valori morali della comunità perché ritenuto “uomo contro natura”. Le cose che si dicono sul conto di Abram non vengono mai chiarite del tutto, non trovano mai una conferma inequivocabile, ma bastano i “sentito dire” per riempire le teste dei contadini di cattivi pensieri, bastano i sospetti compiaciuti che si scambiano l’un l’altro per armare le mani di furia assassina. Più importante di ciò che è vero è quello che si vuole sia la verità, l’unica che si allinea docilmente al senso comune dominante, quella che consente la conservazione salvifica di un’intera impalcatura sociale, quella che fa camminare lungo uno stesso binario lo sparlare pregiudizievole sugli altri e il fatto che ognuno, così facendo, si sente una persona migliore. È un aspetto caratterizzante i piccoli centri questo (di ogni tempo e luogo) di diventare una sorta di "covo di vipere", luoghi dominati dalla noia e dal monotono ripetersi delle cose di sempre, potenziali incubatori del male che aspetta solo il pretesto ritenuto idoneo per poter esplodere. Peter Fleischmann ha usato come palcoscenico i campi aperti di una campagna rigogliosa di doni della natura per fare una requisitoria acida sulla seduzione dell’ignoranza, giocando anche sui contrasti quindi, facendo dell’esplosione della cattiveria l’unico elemento che sembra rinsaldare lo spirito comunitario in nome della tenace conservazione di una calma apparente (si veda il finale “festoso”)

Considerato un film “apripista” del “nuovo cinema tedesco”, “Scene di caccia in Bassa Baviera” è un’opera a suo modo innovativa per il modo inconsueto per l’epoca di trattare temi allora spinosi come l’omosessualità, l’intolleranza omofoba e l’odio per il diverso. Certamente interessante è l’aver fatto dell’ipocrisia e dell’egoismo delle persone delle fonti inestinguibili del fascismo che alberga sotto l’epidermide del mondo, e di aver applicato questi “vizi capitali” ad una comunità rurale (Michael Haneke gli sarà stato forse debitore per “Il nastro bianco”) piuttosto che a un consorzio borghese. Ecco, se c’è un senso che si può ricavare dalla struttura narrativa del film, dal modo in cui si insiste a rappresentare le relazioni tra le persone prosciugandole di ogni umana comprensione per l’altro, un senso che serva anche a spingerlo oltre il suo contingente, questo è da ricercarsi nella riflessione che il fascismo si configura come un’attitudine mentale che è nelle cose e che la grettezza mentale degli esseri umani ne rappresenterà sempre un ideale e florido terreno di coltura. Film di spessore da recuperare.   

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