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Scene di caccia in Bassa Baviera

Regia di Peter Fleischmann vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Scene di caccia in Bassa Baviera

di yume
8 stelle

Fra i boschi incantati della Bassa Baviera una caccia all’uomo in tutto simile a scene analoghe girate lungo le sponde del Mississipi, mancano solo i cappucci bianchi.

Quando Fleischmann girò il film nel ’69 a Unholzing e a Ergoldsbach, in Bassa Baviera, per l’argomento trattato e il ruolo dei paesani nella vicenda si trovò ad affrontare forti reazioni ostili da parte della comunità della zona.

Quel “fascismo quotidiano”, quella marginalità che metteva in scena, mutuando la vicenda dal testo teatrale di Martin Sperr (attore protagonista e co-sceneggiatore), trovò evidenti conferme anche nella realtà effettuale, e, a distanza di quarant’anni, è grande lo sgomento che la storia ancora suscita, non soltanto per l’alto tasso di violenza e attualità che contiene, ma, e soprattutto, per il contrasto stridente con un mondo contadino che si è sempre tentati di immaginare solidale, immune da nevrosi metropolitane, immerso nel pacato ciclo della natura e delle sue opere.

 

 

Quel mondo che solo qualche decennio prima Sepp Hilz, “il pittore dei contadini”, amato artista di regime quotato dal Fürher in persona, dipingeva come isola felice, oasi di buoni pensieri e buone parole, l’ Heimat  a cui tendere come approdo sicuro dalle tempeste della vita, è lo stesso che, tableau vivant, metterà in scena fra i boschi incantati della Bassa Baviera una caccia all’uomo in tutto simile a scene analoghe girate lungo le sponde del Mississipi, mancano solo i cappucci bianchi.

Dunque il rifiuto del “diverso” non conosce frontiere, e Abram, il sospetto di omosessualità, Hannelore, la ragazza border line che gli uomini del paese si passano di mano in mano e il piccolo ritardato mentale che sogna che la madre muoia, sono i corpi estranei da espellere perché i riti possano proseguire immutati.

Fra i riti della tribù, il più celebrato è l’uccisione del maiale, e lunghe sequenze girate nel porcile pullulante di rosei suini grufolanti, ammassati per il pasto quotidiano intorno al trogolo, mentre va un grazioso Lullabee come pista sonora, fanno da antitesi e complemento all’altro rito, quello che apre il film,  con camera fissa ad inquadrare, ieratica, il prete che dice Messa in fondo alla navata, sull’altare, mentre il canto dei devoti sale verso l’alto.

Sfilano primi piani rugosi di paesani oranti, rispondono in latino alla preghiera, e gli affreschi absidali recano atroci scene di martirio, mani senza pretese di pittori naïf hanno decantato storie edificanti per la devozione dei fedeli.

Sembra un calco di questa la stessa scena di Haneke, nel Nastro bianco, lo stesso ottuso cantilenare, la stessa partecipazione meccanica, assente e doverosa al mistero incomprensibile.

Fuori, nella piazzetta assolata, tutto torna al suo posto, la pietà ha fatto il suo corso e il gioco al massacro quotidiano può riprendere.

Scende dall’autobus Abram, torna dopo mesi dalla città, tutti lo guardano con sospetto e finta cordialità, si mormora di costumi sessuali pervertiti, forse un po’ di carcere per “atti osceni in luogo pubblico” o “offesa al comune senso del pudore” (la terminologia non ha confini per la fantasia).

Che poi Hannelore sia il giocattolo di tutti è cosa buona e giusta, la violenza sul suo corpo può al massimo scatenare risate e battute di spirito.

Ma Abram no, non importa che sia un ottimo meccanico, che sia un ragazzo mite e sorridente, perfino la madre lo vorrebbe morto.

Il crescendo di tensione è inarrestabile, ma Fleischmann lo guida secondo gli stilemi che ormai avevano fatto scuola dal  Manifesto di Oberhausen del Nuovo Cinema Tedesco del ‘62.

Dal momento in cui ogni taglio di montaggio provoca la fantasia, una tempesta di fantasia, può generare addirittura una pausa nella narrazione. È esattamente in questo punto che le informazioni vengono convogliate. Questo è quello che Benjamin intendeva con la nozione di shock. Sarebbe sbagliato affermare che un film deve aspirare a scioccare gli spettatori, questo limiterebbe la loro indipendenza e le loro capacità di percepire. Il punto in questione è la sorpresa che scaturisce quando, attraverso meccanismi sotterranei del pensiero, improvvisamente si comprende qualcosa in profondità, e da questa prospettiva si indirizza di nuovo la fantasia al corso reale della narrazione”,

affermava Alexander Kluge, e i meccanismi sotterranei del pensiero seguono attoniti le immagini che sfilano piane, nulla che esca dall’alveo dell’agire quotidiano, e si avverte la rete sottile  che si sta infittendo, le maglie che si stringono, le parole di un lessico che spinge sempre più verso la violenza inaudita, quella che culmina in tragedia assurda, con l’innocente che diventa colpevole e la giustizia che trionfa e appaga.

Alla fine tutti si ritroveranno nella sagra paesana a festeggiare il candidato Burgermeïster benedetto dal parroco, scorreranno fiumi di birra, la nostra Heimat sarà salva.

“Noi tedeschi abbiamo dei problemi con le nostre “storie”. L’ostacolo vero è la nostra “Storia”. Il 1945, anno zero della Germania, ha cancellato molto, ha creato una voragine nella capacità di ricordo della gente. Un intero popolo – come afferma Mitscherlich – “è diventato incapace di essere in lutto”, il che significa “incapace di raccontare”.

Sono parole di Edgar Reitz, che ha dedicato venti anni della sua vita per riprendere la strada del racconto, e Schabbach, tranquillo paesino della Renania Palatinato, dove, piagnucola Lucie, "mai che succeda qualcosa in questo Hunsrück di cui una persona possa sublimarsi", ha seguito la strada aperta da Fleischmann fra i boschi e i porcili in bianco e nero della Bassa Baviera.

 

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