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Anatomia di un rapimento

Regia di Akira Kurosawa vedi scheda film

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La recensione su Anatomia di un rapimento

di ilcausticocinefilo
9 stelle

 

 

Kurosawa stupisce ancora. Lanciatosi qui sul terreno del noir, lo piega alle proprie esigenze grazie alla sua straordinaria abilità registico-narrativa che lo porta sempre a trascendere i confini ristretti del genere, di qualunque genere si tratti. Anatomia di un rapimento è un poliziesco che si tramuta rapidamente in una tragedia degli ultimi con venature umanitaristiche, esistenzialistiche e, via via, polemiche verso una società macchiata da tremende diseguaglianze.

 

Nella seconda parte in particolare – che all’unità di luogo della prima contrappone un dinamico alternarsi di ambienti, personaggi, situazioni – si fa ancora più tranciante la critica sociale dell’opera (con un sottofondo di contestazione anticapitalista) – già suggerita dalla palese avidità degli azionisti e dalla fortissima ritrosia di Gondo nel fare “l’unica scelta possibile” – e si viene dunque catapultati nella rappresentazione scioccante di una metropoli nella quale fatiscenti baraccopoli s’ergono scabrose a pochissima distanza da opulenti ville, ove l’inquinamento attraversa ogni singola viuzza e ogni singolo canale, e che tenta di nascondere in zone secondarie e abbandonate a se stesse gli indesiderabili della società (vedi la lancinante sequenza al quartiere dei drogati, gente invisibile della quale taluni pensano di poter disporre a piacimento).

 

 

scena

Anatomia di un rapimento (1963): scena

 

 

Il grande regista giapponese qui ritorna alla raffigurazione dei bassifondi, degli angoli in ombra della realtà. La prima parte rimane tesissima pur nella sua forma teatrale grazie ad un sapiente accumularsi di colpi di scena, ma è proprio la seconda a regalare alcuni grandissimi pezzi di cinema, sin dalla sequenza sul treno, che spezza bruscamente il ritmo catapultando direttamente nell’azione, ma da non dimenticare è anche tutta la lunga sequenza del pedinamento notturno che per merito pure della fotografia in bianco e nero affascina e travolge, di nuovo, nel presentare un’immagine ben poca idilliaca della città: caotica, fin asfissiante, buia e sporca dietro il paravento sfavillante.

 

E poi arriva quel finale, inatteso e inesorabile, che priva la vicenda di qualunque catarsi o lieta conclusione. Kurosawa innalza il poliziesco al grado di meditazione drammatica sui destini degli uomini, le miserie del quotidiano, la disuguaglianza, «i legami segreti che sottendono i rapporti tra vittima e carnefice. Dostoevskij viene qui riletto alla luce di McBain» [ 1 ].

 

 

scena

Anatomia di un rapimento (1963): scena

 

 

Sul finale, nel corso dell’incontro Gondo-Takeuchi, il volto dell’industriale si specchia in quello dello studente di medicina vicino alla fine. Gondo – e con lui lo spettatore – può quasi arrivare a provare compassione per quel giovane, divorato dall’odio, che si sente condannato a vivere in quell’avvilente povertà dalla quale lo stesso Gondo ha avuto la fortuna di emergere. Prima ostentante sicurezza e sprezzo della morte, al dunque Takeuchi «viene colto da una crisi violentissima […] Gondo di spalle rimane inchiodato al suo posto come se tutti i dubbi e le inquietudini dell’assassino gli fossero piombati addosso. Che avremmo fatto noi al posto dello studente Takeuchi?» [ 2 ].

 

Ecco che una saracinesca s’abbatte con fragore metallico, lasciando lo spettatore incerto e turbato, scosso nelle sue concezioni di Bene e Male, attonito dinnanzi alla tragedia della condizione umana.

 

 

 

[ 1 ]  A. Tassone, Akira Kurosawa, il Castoro, 1995, p. 96.

[ 2 ]  Ivi, p. 98.

 

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