Regia di Claudio Caligari vedi scheda film
Forse una pellicola di denuncia del dramma della droga, per non (s)cadere nel moralismo d'accatto o, peggio ancora, nell'estetizzazione tipici di tanti lavori sul tema, non può che assumere un taglio fortemente documentaristico, come nel primo lungometraggio di Claudio Caligari, Amore tossico, del 1983.
Penso all'adattamento cinematografico di Trainspotting di Welsh, a mio avviso tradimento completo di un'opera che di autocompiaciuto ed indulgente non aveva proprio nulla, salvo forse l'abilità narrativa dell'autore, oppure alla trasposizione del pure dolentemente necessario Requiem for a dream di Selby. Esercizi di stile registico indubbiamente accattivanti, ma forse più adatti - come se ne avessero bisogno - a rimpinguare la rotazione video di un Mtv o rilanciare l'abbigliamento vintage, che ad indagare la piaga della tossicodipendenza.
Amore tossico è altro: drogati veri che interpretano sé stessi, scene quasi insostenibili nella loro crudezza - a mia memoria, eguagliate in materia solo dalla pera nel collo di Christiane F., in un'opera di non paragonabile caratura, beninteso - eppure necessarie, chirurgicamente funzionali a mostrare, impietosamente, le macerie di una realtà nell'unica pietas possibile, forse: quella della sospensione di qualsiasi giudizio. Sino al culmine di un epilogo secco ed asciutto, logico atto finale d'una parabola tragica - cesura netta che evoca, non a caso, il finale di Una vita violenta pasoliniana.
Pasolini, appunto, generosamente e talvolta candidamente citato: l'agghiacciante metastasi delle estreme borgate romane fine anni '70 - ritratte "in quel colore eterno d'estate" - e la loro residua umanità di condannato sottoproletariato, l'epilogo ai piedi del monumento in sua memoria all'idroscalo di Ostia, il protagonista raffigurato come un Christus patiens del Mantegna o di Cimabue - didascalismo, quest'ultimo, forse eccessivo, attinto stavolta dal patrimonio filmico (Mamma Roma) del Martire Luterano.
Qualcuno vi vedrà forse presunzione, ma personalmente credo sia onestà intellettuale da parte del regista, non nascondere l'influenza esercitata da un poeta come quello di Casarsa sulla propria formazione, etica prima ancora che professionale. L'indimenticabile ultima lezione, per chi abbia cuore e nervi di farla propria, di quel genocidio culturale operato dall'omologante società dei consumi, a giudizio del Corsaro vero nodo del dramma della tossicodipendenza: annunciato suicidio nonché omicidio di tanti giovani che, come ebbe straziato a profetizzare, "la pagheranno carissima e mi fanno pena".
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