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Amleto

Regia di Grigorij Kozincev vedi scheda film

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La recensione su Amleto

di spopola
8 stelle

Il punto di partenza del regista (sostanzialmente politico) va comunque individuato nell'assunzione del passato (storico e letterario) non come base formale, ma come indicazione polemica per il presente. Vendicare il padre per questo Amleto, significa dunque smascherare l’ipocrisia e l’ acquiescenza (della corte) al potere.

PREMESSA

 

Se nel 1599 fosse esistito il cinema, Shakespeare sarebbe stato il più grande produttore di film del suo tempo:lo scrisse Laurence Olivier in un articolo diventato famoso (Nascita dell’Enrico V)pubblicato nel 1949 su Sequenzen° 2.

Opinione assolutamente condivisibile questa (come stanno per altro a testimoniare le numerosissime trasposizioni cinematografiche filologiche o no, che hanno utilizzato praticamente tutti i suoi drammi e le sue commedie non solo come riferimento diretto, ma anche come semplice canovaccio ispirativo che prendendo a pretesto l’impianto narrativo, lo hanno poi aggiornato a piacimento per raccontare magari qualcosa che ha a che fare con la contemporaneità, a conferma dell’universalità dei temi). Sceneggiature insomma messe in piedi utilizzando direttamente la poesia della scrittura originale riadattandola semplicemente ai tempi per dare vita a rappresentazioni filmiche più o meno corrispondenti, o riletture “critiche” molto rispettose, ma spesso anche stimolanti e geniali sotto il profilo delle scelte stilistiche della messa in scena e dei messaggi veicolati.

Per l’Amletopoi il panorama è vastissimo, davvero sconfinato, tanto fluviale che credo sia persino impossibile fare una graduatoria oggettiva in termini di valore assoluto di ciò che è circolato nelle cinematografie di tutto il mondo intorno a questa tragedia seminale, visto che i primi Amleto riproposti in immagini per il grande schermo, risalgono più o meno proprio agli anni in cui è nato il cinema a soggetto (Le duel d’Hamlet, singolare “lettura” filmica ormai introvabile e quindi  non “verificabile”di Clèment Maurice con Sarah Bernard nelle vesti del protagonista, risale al 1900 ed è del 1907 l’Hamletrealizzato dal grande Georges Méliès, due titoli che rappresentano però solo la punta di un iceberg, poiché come già detto - e ce lo ricorda anche il Morandini - sono talmente tanti gli adattamenti succedutisi nel tempo, da farcene perderne davvero il conto, anche senza considerare le versioni Tv  e quelle realizzate dalle cinematografie asiatiche, molte delle quali risalenti proprio all’epoca del muto e concentrate in buona parte sulle tragedie più “sanguinosamente crude” del poeta).

Non voglio quindi addentrarmi in una analisi oggettiva (con conseguente classifica di merito e di importanza in relazione ai risultati conseguiti) finalizzata ad indicare in assoluto – relativamente a ciò che è ancora disponibile per la visione e quindi  facilmente “rivisitabile” - quelle che sono state le punte di eccellenza o le pellicole che più di altre hanno soddisfatto gli appetiti degli spettatori (valutabili quindi anche in termini di cassetta), perchè il vivaio è così composito e variegato, che ce n’è davvero per tutti i gusti. Ciascuno può dunque scegliere i suoi “must”  seguendo i propri metri di giudizio critico o dando semplicemente voce alla cassa di risonanza delle proprie emozioni.

Di conseguenza, anche io non posso che parlare (e mi sembra giusto che sia così) delle mie personali preferenze in relazione ai tanti Amleto (che ho visto e rivisto così tante volte sia al cinema che in teatro da conoscere quasi a memoria il testo che considero uno dei “canovacci” d’elezione, ottimo sempre, e con qualunque salsa si provi a cucinarlo). 

Mi scuso quindi se mi dilungherò davvero più del dovuto in questa “prefazione” al film di cui intendo parlare, ma credo che sia inevitabile, poiché – e mi ripeto - per quel che mi riguarda, fra i tantissimi capolavori Shakespeariani l’Amleto, pur essendo un “soggetto” fortemente storicizzato, è anche uno fra i più moderni (L’ombra del dubbio: Amleto nostro contemporaneo– saggio di Aldo Carotenuto) e quello che più di ogni altro dei suoi scritti porta dentro e propone interrogativi molto attuali, assolutamente corrispondenti alle lacerazioni della contemporaneità e alla drammaticità che caratterizza la nostra esistenza, con i molteplici piani di lettura che presenta e le sottili “connessioni” psicologiche dei rapporti che anticipano persino di qualche secolo le intuizioni freudiane che  “teorizzeranno” poi  le nevrosi e i conflitti del complesso di Edipo e di altre problematiche esistenziali che sono le basi del processo di analisi psicoanalitica.

Terribili inquietudini serpeggiano infatti nei personaggi del dramma che vivono dentro una realtà costruita su corposi castelli di menzogne, e che quasi mai seguono istanze più interiori e veritiere. E’ dunque in questo essere “infidi,  che son contenuti i prodromi che li fanno diventare un suggestivo campionario esplorativo, nel senso che le loro figure proprio per la loro dualità, offrono magnificamente il destro per diventare a loro volta lo stimolante baricentro di “sperimentalismi formali e drammaturgici” e incursioni narrative fuori dallo schema classicheggiante del teatro elisabettiano di riferimento (e persino dal testo originario così come è stato concepito da Shakespeare).

Già in teatro Amletoè stato oggetto di ardite riscritture interpretative che ne hanno ampliato il senso e gli orizzonti. Molto “carnale”, travolgente e impudica, è stata per esempio la trasposizione scenica che ne fece il grande Ingmar Bergman (passata da Firenze sul palcoscenico della Pergola quando ancora si provava a fare cultura e non solo business quasi mezzo secolo fa nella allora annuale Rassegna dei Teatri Stabili Internazionali che ricordo con forte empatia), tutt’altro che “infedele”, ma tanto eterodossa da essere considerata da qualcuno persino “scandalosa”, ma ci sono stati anche esempi di autori e registi particolarmente attivi nell’avanguardia che si sono spinti molto più in là, arrivando a “isolare”, enucleandoli, singoli episodi e personaggi per offrirci punti di vista divergenti e “visioni” collaterali della storia che, relegando sullo sfondo i drammi del “principe dubbioso”, hanno provato a raccontarci quei fatti, “reinterpretati” attraverso gli occhi dei tanti comprimari ugualmente costretti a subirne le sorti e coinvolti loro malgrado in una inevitabile ecatombe generale. La testimonianza più “certa” e diretta  è quella di Rosencrantz e Guildestern sono morti di Tom Stoppard, tanto per citare il caso più famoso e fortunato (mi riferisco però più al testo teatrale vero e proprio che non all’intellettualistica e un po’ manierata trasposizione cinematografica che lo stesso autore ne fece qualche anno dopo con una istrionica regia dai troppi virtuosismi anche sintattici che incantarono – a mio avviso inopinatamente - la giuria di Venezia). Non posso però evitare di parlare per lo meno di Carmelo Bene che il testo lo ha stravolto in più di un’occasione e a suo piacimento anche con la complicità di Jules Laforgue e del suo Amleto, ovvero le conseguenze della pietà filiale(1877), o di Celestino Coronado (che ha concentrato invece il dramma in soli 65 minuti netti, con l’eroe sdoppiato e interpretato dai gemelli David e Anthony Meyer  ai quali era affidato anche il ruolo di Laerte, Helen Mirren che interpreta contemporaneamente sia Gertrude che Ofelia e Vladek Sheybal addirittura impiegato in ben 4 diversi ruoli), per finire con il franco-canadese Robert Lepage che lo mise in scena in Elsinorenel 1996 come se si trattasse di una scansione drammaturgica “dentro” al cervello di Amleto, in cui un solo attore – Peter Darling – oltre al ruolo del protagonista, incarnava e recitava anche le parti di tutti gli altri personaggi maschili e femminili, comprese quelle dei becchini del cimitero, con un effetto straniante davvero fortemente disturbante.

Chi come me ha avuto per altro una qualche esperienza attiva con il teatro, sa  poi per “conoscenza diretta” che una messa in scena “personalizzata” dell’Amleto è il sogno segreto di ogni regista, così come l’interpretazione “carismatica” dell’inquieto principe di Danimarca, è quello di ogni giovane attore di buone speranze in cerca di una affermazione con l’A maiuscola che lo consacri definitivamente nell’olimpo dei grandi (la storia lontana ci parla persino di “prime donne” che affascinate dalla grandezza assoluta del ruolo, hanno scelto di vestirne un po’ impropriamente i panni a partire proprio da Sarah Bernard).

Eppure le interpretazioni memorabili (sia sulle assi del palcoscenico che nelle trasposizioni per il grande schermo) per quello che ho potuto constatare di persona, sono pochissime, particolarmente per quel che è stato realizzato qui in Italia (all’estero forse è andata  molto meglio): di Amleti – parlo di interpreti che si sono cimentati con appropriata adesione al ruolo - ce ne sono stati parecchi (basti pensare a Gassman e Albertazzi): a difettare sono stati semmai di più i registi che solo in pochissimi casi sono veramente riusciti a penetrare ciò che si cela dietro le parole di un dramma capace di abbracciare pianto e riso, dolore e gioia, ragione e follia, amore e odio, e di passare da un interno domestico a un paesaggio sconfinato, da un salone di corte a un campo di battaglia, da una fortezza a un cimitero.

Teatralmente parlando, quella che più mi ha coinvolto e convinto è stata proprio la disturbante regia  molto “esplicita” sotto il profilo delle “attrazioni” incestuose  proposta da Ingmar Bergman a cui ho accennato prima: una lettura decisamente innovativa e a tratti sconvolgente piena di conflitti psicoanalitici e di turbe sessuali, che nulla perdeva però nemmeno del peso storico di una vicenda incentrata soprattutto sulla controversa questione del potere qui esposta in assoluto primo piano.

Col cinema invece indubbiamente è andato tutto un po’meglio, e magari saranno anche molte di più le eccellenze, ma potendo come ho già detto rendere conto solo di ciò che ho visto a partire dal secondo dopoguerra, probabilmente le posso ampiamente contenere contandole sulle dita di una mano, e fra queste credo che valga la pena ricordare in primo luogo la classicheggiante, canonica interpretazione “Olivieriana” che strabiliò nel 1948 critica e pubblico di tutto il mondo, indicando una possibile nuova strada per una lettura anche in movimento delle immagini (i famosi carrelli verticali) che influenzò anche Welles, e quella altrettanto rivoluzionaria (persino ancora di più) del 1963 di cui mi appresto a parlare in questa circostanza che è ormai da ascrivere purtroppo fra gli “invisibili” (ed è un vero peccato) ma su Youtube se ne possono recuperare alcune sequenze che riescono benissimo a rendere l’idea della sua grandezza:

http://www.youtube.com/watch?v=Vp5Rz0LqUSM

http://www.youtube.com/watch?v=Hr4xI8yZFXk

http://www.youtube.com/watch?v=BRO9BAGN3qA

Oltre a questi due capolavori, credo di poter “salvare” davvero solo la versione di Tony Richardson del 1969 (interpreti Nicol Williamson, Gordon Jackson, Anthony Hopkins Judy Parfitt e Marianne Faithfull) che comprimeva in 115’ una sua precedente realizzazione teatrale “integrale”con una “intelligente” operazione traslativa che spogliava il testo di ogni dimensione aneddotica e pittoresca per puntare soprattutto sulla efficacia dei primi piani degli attori, tampinati a distanza ravvicinata da una cinepresa “incollata” ai  loro corpi  per penetrarne l’anima e rivelarne così il dramma attraverso il volto e l’intensità dei loro sguardi; quella del già citato Coronado del 1976 dedicata per altro a Pier Paolo Pasolini che nella messa in scena  riprendeva e faceva suoi molti degli stilemi della cinematografia underground statunitense della seconda metà del secolo scorso, conditi però con qualche pizzico ancor più provocatorio mutuato dal cinema di Ken Russel particolarmente apprezzato e sulla cresta dell’onda in quegli anni, e la lettura “integrale” di Kenneth Branagh (mi riferisco ovviamente a quella di 4 ore – e lo sottolineo con forza - non alla sinteticità ridotta dell’altra ricavata  per commercializzare meglio il prodotto e attirare una più vasta fetta di pubblico finalizzata a soddisfare gli incassi). Devo invece escludere tassativamente (punto di vista personale) il tumultuoso e “semplicistico” compendio hollywoodiano fortemente riduttivo realizzato a passo di carica da Zeffirelli che aveva semmai fatto ben di meglio in teatro.

 

L’AMLETO DI KOZINTZEV

 

Torno però subito al film che mi preme commentare in questa circostanza, realizzato da Kozintzev nel 1963, per ricordare proprio che è poi quello che Buttafava aveva a suo tempo definito come la tragedia del dovere e dell’abnegazione, e questo in considerazione della lettura “politica” propostaci dal regista (in qualche modo opposta a quella che ne aveva fatto Olivier e con la quale si trovava a confrontarsi direttamente nei giudizi di merito quando uscì sui nostri schermi) piena di interessanti stimoli riflessivi che emergono prima di tutto dal fatto che il dramma è stato “semplicemente” ma “esattamente” ricollocato nel suo tempo e nella corrispondente società di riferimento, rispettando così pienamente le origini anche storiche della tragedia. Partendo da questo presupposto, Kozintzev, ci rappresenta infatti il suo Amleto in chiave fortemente dialettica, trasferendo di conseguenza il tutto nel realistico dramma di un uomo disgustato dall’ingiustizia, dal delitto e dalla tirannia, elementi “centrali” di quel periodo storico.

Non è certo un caso che sia stato uno dei più importanti registi russi del secolo scorso (e uomo di elevata cultura trasversale, autore fra gli altri di due titoli fondamentali come Nuova Babilonia e Don Chisciotte, e del quale forse noi qui in Italia siamo riusciti a vedere davvero troppo poco) a fare questo “passo straordinario” e a dare ai cosiddetti dubbi amletici, una connotazione anche sociologica  indubbiamente “necessaria” e importante, attraverso la quale ci ha fornito una differente “traduzione” cinematografica di grande compattezza formale e di straordinaria rilevanza critico-interpretativa proprio per la novità con cui sono stati studiati i rapporti individuo-ambiente, in opposizione ad una tradizione che vedeva invece (e privilegiava) solo l’individuo.

Kozintzev dunque, che nell’Unione Sovietica è stato uno dei maggiori studiosi di Shakespeare, e che dopo aver dedicato a quest’opera circa otto anni di lavoro preparativo, l’ha fatta precedere dalla pubblicazione di un saggio intitolato Shakespeare nostro contemporaneocon il quale proponeva una lettura dei testi shakespeariani filtrata attraverso la luce delle teorie che poi ha esplicitato con assoluta chiarezza in questo suo straordinario Amleto, una pellicola talmente dirompente da cogliere in contropiede una buona parte della critica che quando fu programmata in sala riuscì solo marginalmente a comprenderne la grandezza e l’importanza mutuata da una forma visiva persino sontuosa ma priva di orpelli, che proponeva però la scelta sostanziale di aderire a un più concreto “realismo” non solo delle immagini, ma anche della parola (intesa come “verso poetico”), visto che il regista fa parlare il suo Amleto utilizzando la traduzione fatta da Boris Pasternak che abdicava a un linguaggio più dichiaratamente popolare e politico, ma non per questo meno ispirato e coinvolgente. E’ stata proprio l’esigenza di attualizzare anche la parola, di renderla per quanto possibile più vicina al discorrere comune, che ha indotto il regista ad adottare tale traduzione, che tra le tante che aveva a sua disposizione, è quella che meno valorizza gli elementi poetici (metafore, figure retoriche) senza però tralasciare la forza catalizzante dei versi originari.

Con l’Amleto di Kozintzev la tragedia di Shakespeare si coagula e si rivitalizza dunque attorno a un personaggio totalmente inserito nel suo ambiente, qui storicamente rappresentato non solo in rapporto alla vita di corte, ma anche a quella degli altri, degli “esclusi” intesi come la società dei suo tempo, ultimi compresi..

La sua proverbiale solitudine acquista così una più inquieta dimensione “universale” poiché riguarda e si identifica in un uomo perfettamente consapevole non solo del suo ruolo sociale nel contesto, ma anche e soprattutto della sua responsabilità individuale e politica, e questo è certamente il tratto più interessante e originale di un’opera in cui il regista pur fra le tante novità, ha saputo comunque mantenere anche la spettacolarità dei gesti di una tragedia qui rappresentata con il rispetto filologico di una meticolosa e preziosa ricostruzione di ambiente e costumi, non disgiunta però dalla problematicità innovatrice  e conflittuale di un uomo non ancora preparato a raccogliere l’eredita del comando che gli verrebbe imposta dagli eventi, ma cosciente dell’inganno perpetrato nel suo regno e non solo verso di lui. Il lavoro è dunque concretizzato e organizzato attorno a una figura “problematicamente moderna” nella sua concezione, ma come si è visto, ben radicata nel suo tempo (un punto su cui ritornerò spesso), il che induce di conseguenza il regista a sviluppare le vicende non solo nel “privato” della reggia, ma anche e soprattutto attraverso un rapporto diretto con l’esterno. Ed è proprio da qui che parte e si sviluppa quella che potremmo definire l’azione “riparatrice” di Amleto, e con essa, il suo lucido itinerario verso la tragedia che farà sì che la morte sia realmente quella di un grande capo, ma anche la fine di ogni speranza razionalistica: dopo di lui, inesorabilmente e davvero, il resto è silenzio(ma anche frustrante rassegnazione e resa, mi verrebbe da aggiungere).

Il personaggio viene così riportato alla dimensione davvero innovativa di eroe a tutto tondo, ben al di là insomma di ogni interpretazione semplicisticamente ed esclusivamente psicoanalitica, poiché qui anche i suoi “ambigui” rapporti con la madre, ritornano ad essere più lineari e “prudenti”, meno “incestuosi” insomma, esattamente come vengono ad essere modificati e non di poco, anche i rapporti con Ofelia, l’altro fulcro centrale al femminile della storia, qui coinvolta in un gioco più schietto e aperto, senza infingimenti e senza inganni ma che comunque non ne modificherà la sorte crudele.

L’interpretazione poi di Innokentij Smoktunovskij è eccellente, di quelle che di solito si definiscono “da manuale”: l’attore ha aderito a questo differente modo di individuare un carattere controverso come quello di Amleto, con una partecipazione totale e fortemente viscerale che gli consente di essere epicamente grandioso, ma al tempo stesso drammaticamente efficace, nel suo riuscire ad evidenziare e a rendere palpabile in forma più mediata e ragionata, proprio quella consapevolezza e ponderazione interiore richiesta dal regista. Rispetto a quello di Olivier (credo che il confronto si possa fare soprattutto con lui), il suo Amleto è dunque meno isolato, più maturo, più riflessivo, ed è principalmente grazie alla complessa personalità istrionica di questo attore stupendo (ricordo ancora i brividi e le emozioni provate a Venezia ascoltando la sua superlativa resa anche vocale nell’unica occasione che ho avuto di vedere tutto il film in lingua originale) che è stato possibile disegnare alla perfezione il profilo di un Amleto più mediato, eroe contemporaneo di una tragedia medioevale come questa.

Il ritmo del film è incalzante, un progredire “drammatico” di rara intensità che non conosce appannamenti e ristagni, né pause sospensive, vivacizzato da una cinepresa molto mobile che ci regala una magniloquenza figurativa di eccellente levatura, ben supportata da una altrettanto adeguata partitura musicale di Sciostakovic capace di fornire alle immagini la corrispondenza di una perfetta eco sonora che ne amplifichi il senso. Del resto l’intesa artistica fra regista e musicista si era consolidata gà negli anni (una collaborazione proficuamente iniziata ai tempi di Nuova Babilonia chesi è protratta più o meno davvero fino alla fine della loro carriera), tanto che si può dire che i due  formavano davvero un binomio indissolubile.

Forse gli unici veri nei che inficiano leggermente la coerenza anche stilistica dell’opera e della sua impostazione fortemente realistica, vanno ricercati in alcuni passaggi un po’ troppo aulici che fanno da trait-union tra scena e scena  (il volo di un gabbiano, qualche visione un tantino calligrafica del panorama celeste), cose davvero di poco conto insomma. E’ semmai però nel tratto che riguarda la follia e la morte di Ofelia che Kozintzev ripropone riportandosi ad una interpretazione anche visiva più tradizionale, quasi pittorica, persino un pò elegiaca con il corpo che fluttua nelle acque del fiume quasi cullato dalla musica, che si crea una piccola frattura in controtendenza con il resto, l’unico e vero “difetto” di una riduzione complessivamente eccellente, vigorosa e stilisticamente pregevole condotta come si è visto, utilizzando i versi della bellissima  traduzione di Pasternak (purtroppo in gran parte sacrificata dalle aride didascalie italiane che sintetizzano all’osso anche le parole, ma recuperabile in parte nella versione doppiata poi passata con successo sui nostri schermi).

Con una lettura opposta a quella di Olivier dunque, il regista russo ha realizzato una “rappresentazione” delle cose che diventa “corale” enunciazione  “popolare” (e questo nonostante la statura immensa del suo protagonista che ne resta indiscusso mattatore) di un dramma profondamente radicato nel terreno delle contraddizioni sociali (il potere e i sudditi, i ricchi e i diseredati, i colti e gli incolti).

 

ANALISI DELL’OPERA

 

Come si è visto, Kozintzev racconta minuziosamente il dramma di Amleto con un rigore cinematografico quasi sempre di grande efficacia, che pone al proprio centro non solo il protagonista, ma anche la rappresentazione allusiva degli attori istruiti dal “principe dubbioso” per smascherare vizi e responsabilità del potere, ulteriore importante snodo “drammaturgico” indispensabile per una costruzione fortemente politicizzata come questa, e dove semmai e per conseguenza, sono tutti gli altri (la regina, Laerte, Polonio, il Re e soprattutto Ofelia, che anche come recitazione, risulta essere davvero l’anello più debole della catena) ad avere una incisività minore rispetto a quello che ci si sarebbe potuti aspettare dalla tradizione, non certo come “importanza” narrativa, ma per quanto invece anche loro diventano qui elementi solo parzialmente solisti all’interno di  una “coralità” di  contorno più vasta, “popolana” e articolata con cui il regista compone intorno a loro, un quadro ambientale assai ricco, significativo ed efficace, che rende ancor più isolati dal mondo e dall’effettivo contesto sociale danese di quel periodo gli uomini “del potere” (non solo il re, la regina o Polonio, ma anche i cortigiani): in un castello isolato e solitario come quello infatti , fatti salvi i dubbi di Amleto, nessuno di loro viene mai nemmeno sfiorato dalla presenza di un popolo qui molto evidente, ma che rimane sempre e  “volutamente” distante, ignorato, muto, una lontananza “reale” ma concreta di figure che corrono, passano, scompaiono, osservano e si inseguono, ma sempre sullo sfondo (e non per questo però meno realisticamente significanti), sulle quale il regista spesso ritorna e si concentra, pur senza renderle prevaricanti.

Rifiutando dunque le analisi di tipo psicanalitico (non solo quella di Olivier, ovviamente) che per un lungo periodo hanno preso il sopravvento su ogni altra cosa, e non cedendo nemmeno alle possibili suggestioni teatrali o alle idealizzazioni romantiche sempre in agguato di fronte a simili operazioni trascrittive, il regista con la sua difficilissima e rischiosa ma affascinante impresa, ha provato, riuscendoci in pieno, a (re)interpretare storicamente il testo, privilegiando soprattutto l’infido terreno delle contraddizioni sociali, il che fa sì che il protagonista, proprio nell’ambito di una inusuale impostazione come questa e al di là della sua storia personale (o meglio ancora grazie proprio a questa), diventi l’efficace anello di collegamento fra l’“alto” e il ”basso” (le classi sociali contrapposte di ogni società) e conseguentemente, non solo il “critico” contestatore del potere, ma anche l’inconscio interprete delle esigenze di una comunità sfibrata dalle ingiustizie e dalla fame,  che  ribadisce così in pieno restituendocela in tutta la sua forza, proprio l’intuizione che aveva guidato nella sua traduzione “aggiornata” il pensiero ispirativo di Pasternak, per il quale, lungi dall’essere la tragedia dell’irresolutezza, Amleto è la tragedia del dovere e dell’abnegazione.

Il tessuto figurativo come abbiamo già visto, è altrettanto magnifico e perfettamente corrispondente  alla splendida interpretazione del protagonista: un bianco e nero dai toni cupi, giocato sovente sui campi lunghi che riprendono spalti, androni, spiazzi, mura e torrioni, il tutto reso palpabilmente da avvolgenti movimenti di macchina che si fanno a volte frenetici come l’azione, o sostengono più pacatamente, ma con altrettanta forza, i lunghi primi piani di un volto o di una nuca lavorando solo in apparenza “sottotono”, immaginati e costruiti proprio per non distrarre l’attenzione dello spettatore, così che nei monologhi, possa restare concentrato soprattutto sulla potenza estrema della parola.

 

L’impostazione del regista, conferma dunque in pieno il suo atteggiamento leggermente polemico e in contrapposizione rispetto alla tradizione tutta occidentale per la quale Amleto era stato fino a quel momento (Olivier compreso)  solo il dramma di una coscienza, ma esprime anche la volontà di riproporre una ideale continuazione ideologica che si rifà alla grande tradizione russa del passato (Bielinski, Herzen, Cernyscevskij, Dobroljubov, Puskin) che aveva già prima di lui considerato questa figura come quella di un ribelle che lotta contro un certo stato di cose alla luce di principi ideali lucidamente perseguiti fino in fondo e che in un’epoca travagliata e difficile come quella in cui sono collocate le sue gesta, cercava di innalzare per lo meno la bandiera dell’umanità e della giustizia.

Per comprendere meglio questa “contrapposizione” fra due differenti concezioni del personaggio e della storia, e soprattutto per evidenziare maggiormente la portata delle novità formali e contenutistiche della pellicola di Kozintzev (che - sia ben chiaro - non “deforma” il testo, ma lo interpreta “a suo modo” con grande rigore filologico e senza troppe “alterazioni”), mi pare però che sia fondamentale fare un confronto più diretto con la versione  di Olivier che immediatamente la precede, che resta a mio avviso la più significativa insieme a questa (non eguagliata insomma nemmeno da quella filologicamente corrispondente anche nella durata complessiva dell’opera rispetto al testo originale, sia pure con uno spostamento epocale nell’ottocento, fatta da Kenneth Branagh).

In questo senso, possiamo dire allora che Olivier ha fatto un Amleto comunque rispettoso della tradizione presentandoci una figura tormentata dal dubbio, in preda ad una profonda angoscia esistenziale, le cui cause non sono da ricercarsi però solo nel trauma provocato dalla morte del padre, ma motivate semmai da ben altre ragioni preesistenti che affondano le proprie radici in tormentati complessi edipici non del tutto superati né ammessi, e alla luce dei quali deve essere letto e interpretato tutto il suo comportamento, i suoi “tentennamenti”e le sue scelte. In tale contesto, il famoso monologo “Essere o non essere” assume così il massimo valore “significante” della tragedia, in quanto riesce ad esprime esplicitandolo, tutto il sofferto dramma esistenziale di un protagonista dibattuto (e combattuto) da un lato da una tensione che mira a un superamento della realtà, e dall’altra dalla consapevolezza di esserci invece “costretto” dentro, chiuso a doppia mandata da oscure forze che agiscono misteriosamente ed implacabilmente proprio a partire dall’inconscio.

Le problematiche maggiori che aveva quindi dovuto affrontare Olivier per dare alla sua opera adeguata coerenza sia sul piano stilistico che su quello interpretativo, erano state dunque soprattutto di ordine formale, proprio nel suo intuire, accettare e fare proprie, le notevolissime possibilità espressive offerte dai movimenti della macchina da presa e soprattutto dal montaggio (lo specifico filmico, tanto per intenderci) per cercare di rappresentare al meglio attraverso di essi, l’evoluzione dei sentimenti mediante appropriati spostamenti di prospettive spesso in movimento sia in senso orizzontale che verticale.

Il film di Kozintzev invece e al contrario, vuole restituire Amleto al suo tempo(affermazione del regista stesso) efarne così un essere consapevole, che freddamente scruta la realtà, pronto a cogliere ogni opportunità che gli si presenta al fine di realizzare efficacemente la sua vendetta che diventa non solo un fatto personale, ma un problema di giustizia sociale.

Il regista mantiene dunque il dramma psicologico molto sullo sfondo e non lo isola mai dal contesto storico che lo determina. Sottolinea anzi che il comportamento di Amleto è dettato dall’aver preso coscienza dei vizi e delle colpe del potere e della dissolutezza della classe dominante che lo circonda (le prime inquadrature del film chiariscono immediatamente queste particolari e “certe” considerazioni interpretative dell’azione): opponendosi ad esse, diventa di conseguenza l’ideale difensore (anche involontario e suo malgrado, se vogliamo) dei diritti del popolo (come sottolineano altrettanto adeguatamente le ultime inquadrature in cui il cadavere di Amleto sfila davanti a una folla cenciosa di contadini che osserva silenziosa e smarrita).

Conosco comunque benissimo anche quelle che sono state le critiche opposte dai difensori ad oltranza “della tragedia del dubbio” e della tradizione,  e che riguardano soprattutto la “scelta” delle parti che il regista ha privilegiato, ritenuta arbitraria e come tale, discutibile Mi sento però di rispondere con fermezza a queste osservazioni senz’altro legittime, che quando si deve necessariamente procedere a una “sintesi” cinematografica delle cose, qualcosa va necessariamente sacrificato, ed è inevitabile che in questo lavoro di “ripulitura” ciascuno proceda eliminando ciò che per la sua visione risulta più superfluo e meno significativo, provando di conseguenza a favorire ciò che invece gli consente di onorare al meglio il suo “personale” disegno complessivo, esattamente per altro come aveva fatto prima di lui anche in modo ben più sostanziale, già lo stesso Olivier che per dare compattezza alla sua visione interpretativa, aveva eliminato sia Fortebraccio che Rosencrantz e Guildestern (personaggi tutt’altro che secondari che rivestono invece una funzione importantissima nella definizione storica della tragedia), senza che nessuno avesse in quel caso gridato alla profanazione.

I due piani, quello storico e quello psicologico, risultano dunque nella lettura di Kozintzev intimamente legati e interattivi fra loro. C’è poi a mio avviso anche un terzo piano tutt’altro che secondario che riguarda soltanto Amleto ed il suo oscillare alla ricerca di valori etici capaci di rendere sostanziale la sua azione anche nel ripensamento pessimistico di ciò che è in effetti la realtà che lo circonda, risolto dal regista utilizzando i magnifici primi piani del volto sofferto ed espressivo di Innokentij Smoktunovskij, e ricorrendo invece per la parola, alla sua voce fuori campo: un procedimento stilistico particolarmente azzeccato che se coraggiosamente lo porta a rinunciare alle enfasi declamatorie (delle quali nemmeno Olivier aveva  voluto fare a meno) proprie della recitazione teatrale, gli consente proprio in virtù di questa interiorizzazione del flusso del pensiero, di controllare e dosare con maggiore efficacia l’azione e il dilemma privato, creando un ritmo tutto interno a un procedimento drammatico in cui le ampie cesure dei monologhi temperano il grado di tensione raggiunto, e anticipano logicamente, rendendolo “consequenziale” e molto più razionale, ogni successivo comportamento e scelta di Amleto.

E’ dunque proprio grazie alla summa delle tante opzioni innovative offerte da questa rilettura in chiave critica del personaggio, che tutto il comportamento di Amleto risulta alla fine logico e coerente e che la sua “pazzia” assume il senso di una vera e propria forma di lotta contro l’ambiente che gli è nemico, e quella che gli consente di valutare ogni possibile reazione da parte di ciò che lo circonda, utilizzando ogni debolezza percepita per realizzare al meglio il suo feroce e complesso piano di vendetta.

Quest’uomo che osserva e giudica, non subisce dunque l’ambiente che lo circonda (di cui comunque è pur sempre un prodotto), ma cerca  invece di combatterlo dall’interno sfruttando tutte le occasioni a lui favorevoli per eliminare quei nemici che non sono solo suoi. Un Amleto quindi che con Kozintzev diventa una figura che crede fermamente nell’uomo e nelle possibilità di una condotta morale ispirata ai sani principi della convivenza, e che di conseguenza  parla (grazie anche a Pasternak) con la voce di chi cerca di risolvere quei problemi politici che sono anche i  problemi generali d ella società.

L’opera non ha mancato di suscitare nel tempo ampi contrasti e dibattiti in seno alla critica, tra i difensori dell’Amleto “Olivieriano” e coloro che hanno invece riconosciuto e difeso la validità dell’impostazione di Kozintzev. Ritengo però che tutti possano ritenersi  per lo meno d’accordo (soprattutto adesso) sulla serietà e sull’accuratezza della ricostruzione storica e filologica dell’ambiente. Le armature ad esempio, sono originali: quella dello spettro, proviene addirittura dal museo di Leningrado ed è opera di un artigiano di Norimberga del cinquecento, un “valore” aggiunto che restituisce maggiore veridicità alla storia.

 

Della grandezza di Innokentij Smoktunovskij  ho già accennato. Desidero comunque aggiungere e confermare che l’attore conferisce al suo personaggio una intensa carica drammatica davvero fuori dal comune, ma che la tensione che determina è sempre molto misurata e “controllata”, portata insomma sino all’estremo limite della “rottura”, ma poi alla fine sempre dominata dalla ragione, e che è proprio in questo che sta la sua potenza estrema, quella che contribuisce a fare del suo Amleto una figura che non solo ha piena consapevolezza delle condizioni in cui versa il suo Stato (la Danimarca), ma che si sente anche responsabile di tale situazione fortemente “logorata” dal potere E’ proprio allora nei momenti in cui è solo con se stesso, che si avverte maggiormente il senso del suo sconvolgente dilemma “consapevole” e che anche la recitazione raggiunge vertici assoluti, molto di più quando il gesto diventa invece necessariamente esasperato e si deve sottolineare il dramma con un pizzico di istrionismo per renderlo più efficace (l’apparizione dello spettro, la reazione di fronte alla notizia che la madre condivide il suo letto con il fratello del padre dopo l’assassinio). Rispetto a quello di Olivier, il suo Amleto risulta essere di conseguenza un personaggio meno isolato, più maturo e riflessivo, ma anche molto meno romantico.

 

APPENDICE

 

Kozintzev non pretende comunque di imporre il suo Amleto come l’unica interpretazione possibile: egli ci offre semplicemente una differente proposta di lettura, dalla quale accetta che qualcuno possa anche dissentire: rivendica soltanto (e a suo tempo lo ha fatto in più di un’occasione) che “quella” è la sua visione personale, punto e basta.

Una cosa però è certa (o almeno sembrava assolutamente chiara in quel periodo) e consiste nel fatto che si pensava (lo scriveva anche Brunetta) che chiunque avesse dovuto di nuovo affrontare il testo dopo di lui, sarebbe stato inesorabilmente e necessariamente obbligato a tener conto di  tale rilettura. Le cose però non sono poi andate in questa direzione purtroppo (forse perché troppo in fretta si è preferito disperderne le tracce?).

Tralasciando infatti il deludente rifacimento ginnico-edipicodi Zeffirelliana memoria  (il Mereghetti) che nel 1990 tornava ad rifiutare totalmente le componenti storico-politiche del testo, incentrando ogni cosa su un dramma “familiare” consumato fra le mura del castello di Elsinore, anche quello di Branagh – corretto e filologico come si è visto - prenderà una direzione diversa come nel frattempo nulla di nuovo fosse accaduto sotto il sole, decidendo di ritornare, al di là della differente ambientazione temporale,  direttamente alle origini accademiche della messa in scena.

Significativo sarebbe al riguardo anche il raffronto del contributo dei “doppiatori” delle varie trasposizioni (visto che da noi fino all’avvento dei dvd, è proprio attraverso le loro voci che le abbiamo dovute recepire): tutti interpreti di assoluto prestigio della nostra scena e quindi giustamente “attori” in proprio e non solo doppiatori.

Trascurando il Giannini /Gibson che non ha evidentemente “colpe” personali perché costretto a risolvere al suo meglio le cose ma nell’ambito di una “lettura” del personaggio poco efficace a causa dell’impostazione registica opzionata dal nostro Zeffirelli nazionale (che concentrando gran parte del conflitto sul rapporto madre-figlio, ha spostato pericolosamente anche il baricentro, nel far sembrare semmai protagonista la Close più che l’irrequieto Gibson), e il  gigionesco e per più versi “improprio” Gino Cervi che prestava la voce a  Olivier con molta “magnificenza oratoriale” per farne un’altra cosa rispetto all’originale, resta da accennare – e questa volta in positivo - allo straordinario exploit (anch’esso assolutamente antiaccademico) offerto da Enrico Maria Salerno/Smoktunovskij e alla altrettanto perfetta aderenza del doppiaggio di Massimo Populizio  per Branagh.

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