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L'Agnese va a morire

Regia di Giuliano Montaldo vedi scheda film

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La recensione su L'Agnese va a morire

di LIBERTADIPAROLA75
8 stelle

 

“Cosa c’è scritto?”       “Partigiano.”

 

Questa scena non è all’inizio ma dopo circa mezz’ora di film. La protagonista, Agnese, si trova nel paesello sparso nella campagna del Ferrarese e davanti a lei si mostra l’agghiacciante scena di un partigiano impiccato dai tedeschi (ancora presenti) e con appeso un cartello con su scritto “Partigiano”.

 

L’Agnese non sa leggere, al contrario il marito studiava e leggeva, sognando un Mondo libero dai mali dove tutti potessero vivere in pace. Lui viaggiava con la mente, mentre col corpo era paralizzato. Poi i tedeschi lo hanno portato via e la moglie…

 

Passato alla Storia del Cinema come primo (e forse unico) film sulla Seconda Guerra Mondiale dove l’azione è tutta incentrata principalmente su di una donna coraggiosa (“Ero io che non volevo imparare a leggere, c’erano cose più importanti a cui pensare!”), in realtà questa non è la nota più curiosa e importante di questa interessante pellicola.

 

Il film è una sorta di HELZAPOPPIN macabro sul significato di “Libertà”. Troviamo vedove combattive, partigiani leali, partigiani dal grilletto facile, collaborazionisti, comunisti, vigliacchi, eroi, puttanelle che vanno a letto (o nell’erba o paglia, ma è lo stesso!) con i tedeschi, nazisti cattivi, disertori, alleati che prima sparano poi chiedono “Chi va là?” pure ai partigiani amici, tedeschi crudeli che, per divertimento, sparano ai gatti, tedeschi buoni che vorrebbero trovarsi altrove (magari a casa loro e non vedono l’ora che la Guerra finisca!), la maggioranza silenziosa spettatrice di vicende belliche del quale gliene può fregare di meno, etc…

 

A dare una mano al senso di grottesco che scaturisce dalle immagini ci sono apparizioni (lunghe, da coprotagonisti, o brevi, fino a semplici comparsate) di moltissimi attori completi e caratteristi (Michele Placido, Eleonora Giorgi, Flavio Bucci, Johnny Dorelli, Ninetto Davoli, etc…), inquietanti location della Bassa Padana magistralmente fotografate con toni Avatiani (del resto sono le stesse dei suoi lavori del periodo), scene shock e catastrofiche (girate in modo curioso, alternando riprese in reali cascinali abbandonati immersi nelle acque della laguna di Comacchio con scene ricreate in studio con modellini e l’uso, a volte evidente, dell’effetto figurina, antenato del moderno Chroma-Key) e lampi di commozione.

 

Il regista Giuliano Montaldo, per raccontare questa storia, prende in prestito il soggetto da un romanzo pubblicato nel 1949 e quindi documentaristico e realistico visto che lo spettro delle vicende narrate ancora vagava nell’aria e amalgama la sceneggiatura di toni pasoliniani e bertolucciani (lungaggini fintamente a vuoto comprese).

 

Tutto il film sembra una sorta di NOVECENTO (inteso come il celebre film di Bernardo Bertolucci) alternativo alla parte non mostrata e diluita delle vicende partigiane di Olmo Dalcò.

Il regista viene aiutato da ottimi attori (dalle già citate comparsate fino ad una magnifica Ingrid Thulin che, di solito, è impiegata in ruoli da amante di nazisti mentre qua è immensa nella parte di improvvisata eroina partigiana. Bravo anche Stefano Satta Flores, burbero Comandante Partigiano Intellettuale) e il risultato è sorprendente.

 

Il senso del tutto è che, forse, l’uomo da sempre è in lotta con se stesso e che ciò porta l’agognata libertà ad essere un utopia (il fotogramma finale).

 

Adorato da Quentin Tarantino che lo omaggerà in più d’una scena nel suo BASTARDI SENZA GLORIA, purtroppo non è ancora capito a tutt’oggi dalla gran parte della critica mentre, invece, è uno dei più sinceri e realistici affreschi su ciò che è stata la più grande Guerra Civile Fratricida della Storia dell’Umanità.

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