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Sinfonia nuziale

Regia di Erich von Stroheim vedi scheda film

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La recensione su Sinfonia nuziale

di spopola
10 stelle

Scritto da von Stroheim con Harry Carr, è in apparenza il film più classico dell’intera filmografia del regista. Meno delirante  e visionario di altri forse, ma altrettanto smisurato e assolutamente “irrealistico” nella sua struttura, comunque (un risultato straordinario che viene raggiunto paradossalmente proprio per “eccesso di realismo”, ed è davvero tutt’altro che un controsenso).

L’impronta personalissima del geniale autore, rimane dunque  potente e inconfondibile anche in questa pellicola che potrebbe essere benissimo definita un “antimelodramma” perfettamente strutturato per mettere alla berlina il “positivo” sentimento dell’amore (ma non solo questo perché lo sguardo è più perfidamente indirizzato contro tutto ciò che risulta troppo correlato al conformismo del periodo), al quale per altro verrà ancora una volta dato scacco matto dalla potenza malefica e distruttiva del denaro. Lo spettacolo della vacuità morale dell’aristocrazia e del cinismo borghese è infatti qui orchestrato in modi  che pur non escludendo un possibile (quanto remoto) sospetto di compiacimento e complicità implicita, ne amplificano il “giudizio” negativo e ne fanno un’opera acre e velenosa che ha però il ritmo aereo di una pochade con la quale von Stroheim, minuzioso cronista della decadenza e dei vizi della classe al potere e dissacratore delle pulsioni sessuali, modificando un po’ la “forma”, continua  in pratica e senza minimamente contraddirlo, un discorso già portato avanti con esiti sconvolgenti (lo dimostrano le sconsiderate reazioni della censura) con Blind Husbands (Mariti ciechi) e Folish Wives  (Femmine folli).

 

Ambientato in una suggestiva, quasi immaginifica Vienna di fine ottocento, il film racconta in breve sintesi, del principe Niki della famiglia dei Wildliebe-Rauffenberg e del suo amore (in verità umiliato e offeso, e soprattutto non difeso fino in fondo) per la figlia di un misero violinista squattrinato. Il principe infatti nonostante che il suo cuore batta in quella direzione, sarà alla fine costretto a convolare a nozze con una dolce ma “difettata” ragazza  zoppa, accettando così un’unione combinata e imposta dai parenti per motivi di mera natura economica (la donna è infatti figlia di un danaroso fabbricante di cuoio che può rimettere in sesto le disastrate casse della dinastia).

Una storia semplice e abbastanza lineare insomma, utilizzata però  per farla diventare una attenta e spietata indagine sui caratteri identificativi di figure e personaggi che nascono e si muovono in un  preciso e determinato ambiente (un mondo e una classe sociale ben definibili e ancor meglio identificabili) e che generano azioni e comportamenti i cui riflessi e condizionamenti sono avvertibili e rintracciabili in ogni loro atto e  momento, e che per questo arricchiscono e illuminano lo svolgimento della storia di significati  e dimensioni di particolare rilevanza sociologica.

Sullo sfondo di quella Vienna mitizzata che raggiunse il massimo splendore proprio negli anni a cavallo fra l‘800 e il ‘900, prende così  vita, demistificandola,  la dimensione economico/mondana di quella “speciale” nobiltà cresciuta e prosperata alla corte degli Asburgo con le impeccabili uniformi degli ufficiali e gli sfarzosi vestiti delle signore, i ricchi palazzi, le processioni religiose e le norme rigidamente incardinate nelle convenzioni imposte dal cerimoniale dei protocolli militari, un mondo visto spesso con la malinconia struggente e nostalgica del ricordo, ma con la contrapposizione di uno sguardo eticamente orientato a scoprire e denunciare, sotto la superficie di facciata di uno sbandierato perbenismo nobiliare e borghese, la più trucida e laida realtà comportamentale che vi si celava dietro (una sequenza in questo senso assolutamente esplicativa, è quella in cui il brillante ufficiale di Sua Maestà Imperiale protagonista della storia, insulta pesantemente il proprio padre perché si è rifiutato di dargli altro denaro, e tenta poi di accattivarsi la madre per raggiungere un analogo obiettivo, arrivando persino a baciarla impudicamente sulla bocca, determinando così un conflitto genitoriale molto forte che fa trasparire odio ed avversione e culmina in una rissa che si consumerà  sotto i baldacchini ornamentali di sontuose camere da letto [Mario Siniscalco – Cinema nuova serie n.146-147]).

Lo spaccato sociale  dei contrasti un po’ ambigui fra le caste e le classi,  diventa allora quasi una “indagine conoscitiva” acuta e spietata dei condizionamenti e degli opportunismi che generano e promuovono (vedi il rapporto fortemente equivoco tenuto dai  padroni nei confronti delle ragazze della servitù e il ritratto critico che ci viene offerto di una prestigiosa  famiglia aristocratica fra le più stimate della Corte asburgica, ma che ha in pratica completamente esaurito tutte le sue sostanze con stravaganze ed eccessi di ogni tipo, e che ha di conseguenza bisogno, per non perdere il proprio prestigio, di una tempestiva e sostanziosa iniezione di liquidità per ricostituire il patrimonio dissipato, che può arrivare solo da quel matrimonio di convenienza combinato fra il padre del giovane rampollo di casa  con la figlia “menomata” del ricchissimo commerciante).

C’è, nel film, un rigido, quasi allucinato tendere proprio verso questo fine, e le modalità utilizzate per conseguire tale risultato, sono quelle di sottolineare con una evidente concitazione anche un po’ sopra le righe, l’inconsistenza ridicola della struttura morale dei  personaggi, per rendere così ancora più esplicito il grottesco amarognolo della situazione.

Il patto relativo alla “promessa di matrimonio” viene infatti stipulato dai due vecchi genitori in frac, distesi a terra in una specie di lupanare, mentre donne ubriache e discinte si muovono intorno a loro con assoluta impudicizia. L’ottica è dunque come sempre fortemente “caricata” (che è poi la consueta cifra stilistica del regista) e che a qualcuno potrà persino apparire  eccessivamente sadica e rivoltante. Comunque  la si pensi però, nessuno  potrà disconoscere alla potente visionarietà della scena, una precisa, imprescindibile necessità  narrativa, con il suo prioritario di bisogno di “dissacrazione” teso a fornire un quadro il più reale e crudo possibile di un ambiente  specifico, obbligatoriamente “letto” ed illustrato con il fondamentale contributo di una lente  di ingrandimento criticamente deformante che solo  la sottolineatura del particolare un po’ caricaturale può restituirci in tutto il suo cinismo  per la valenza simbologica che si porta dietro (vedi la conclusione proprio di questa scena, con la macchina da presa che si concentra con ridicola evidenza,  sul cerotto per calli che  il ricco Schweisser, il padre della ragazza storpia, applica al piede del nobile Rauffenberg).

Lo stile (e la novità) non si esplicita però questa volta soltanto attraverso le possibilità offerte dal montaggio, ma è proprio con l’impianto registico generale e quello più specifico che mette a fuoco ciò che seleziona  “dentro” l’inquadratura, che riesce a rendere più definita la sua forma e il suo valore (posso tentare di evidenziare meglio il concetto, riassumendo nuovamente  con il contributo delle parole di Freddy Burke, la scena - che confermo fondamentale nell’economia dell’opera -  del bordello e del “contratto”,  che si alterna  con le idilliache sequenze del secondo incontro fra Mitzi e Nicki: servitori neri con cinture di castità, catenacci a forma di cuore, catene, placche metalliche rutilanti irte di punte, stappano bottiglie di champagne. Orgia. Orchestra. Il padre del principe si rotola in terra in mezzo a grappoli di uomini ubriachi e di donne seminude. L’industriale gli dà una pestata sul callo che lo fa soffrire, poi, ubriachi entrambi, contrattano la dote della figlia, mentre intorno a loro l’orgia sfrenata assume sempre più una dimensione demoniaca anche se purtroppo  nemmeno in questo caso tutto è rimasto visibile, perché molti degli episodi più espliciti e audaci, regolarmente filmati, sono stati poi censurati, e di conseguenza cassati dall’edizione messa in circolazione.

Da una parte dunque abbiamo il mondo in “putrefazione” della nobiltà, e in opposizione, quello della piccola borghesia, dei bottegai e dei commercianti (destinato ad usurparne il posto) che giunge a confondersi e mischiarsi con una multiforme genia di sottoproletari composta da macellai e osti, suonatori e mendicanti, anch’essi visti  però con occhi impietosi che mettono in evidenza soprattutto i loro lati peggiori, le loro tare ed egoismi, i vizi segreti insomma più che le loro rare virtù.

E’ interessante rilevare la sapiente competenza con la quale von Stroheim riesce ad accostare e ad amalgamare  questi vari ambienti fra loro tanto distanti e divergenti, sullo sfondo di una città ridisegnata attraverso i suoi giardini fioriti (suo anche il contributo scenografico con la collaborazione di Richard Day), le sue piazze e le sue chiese (la panoramica iniziale di straordinaria rilevanza tecnica, è ripresa dal campanile della Chiesa di Santo Stefano mentre le campane suonano a festa) e soprattutto il suono immaginato di quei valzer strimpellati dalle orchestrine sulle rive del Danubio, o i rituali della ricorrenza religiosa del Corpus Domini che accompagnano  appunto l’incontro “galeotto” (un avvicinamento anche sentimentale che possiamo immaginare da subito senza sbocco per le ferree regole dell’epoca) fra Nicki, il brillante ufficiale di Sua Maestà Imperiale, e Mitzi, la giovane e avvenente figlia dei misero violinista, organizzato con un magistrale connubio ben articolato di toni, di slanci e tenerezze, allo stesso tempo “tristi” e “felici”,   che l’acuta e illuminata visione del regista riesce ad elevare per la assoluta sincerità del suo sguardo, molto al di sopra di un  facile romanticismo di facciata. Rosario Assunto ha a suo tempo sintetizzato così il suo  pensiero critico al riguardo: un sottile lirismo percorre dall’interno la secchezza della descrizione: i campi lunghissimi e le panoramiche con cui si apre il film, gli indugi dell’obiettivo sulla città distesa nel sole di giugno. (…) Pensate al rimpianto per un irripetibile “douceur de vivre” che è sottinteso in tutti i richiami di un’età perduta. Perché non per sola analogia di argomento, vedendo il film la mente va all’appassionata apologia con cui Weifel inaugura le sue rievocazioni dell’impero austro-ungarico.

Da sottolineare ancora – come elemento di novità in positivo - la “dualistica” personalità proprio di Nicki (magnificamente interpretato dallo stesso von Stroheim) che sotto la scorza del debosciato, mostra comunque una insolita capacità di sentimenti autentici, anche se poi, come in tutto il cinema del regista, sarà alla fine sempre il pessimismo ad avere il sopravvento.

Per comprendere questo doppio aspetto della sua poetica (e soprattutto il particolare lavoro introspettivo operato anche sulle immagini), è  comunque indispensabile  l’ausilio di un riferimento psicoanalitico, come ha ben suggerito Alessandro Cappabianca, perché la caviglia di Mitzi, il piede zoppo di Cecilia, l’alluce del principe Ottokar sono  tutti elementi che  rimandano a una fondamentale impotenza, che attiene sì a una classe sociale, e a tutti i possibili discorsi storici sulla sua decadenza, ma al tempo stesso travalica il discorso di classe per attingere al piano individuale e segreto della sessualità.   

 

Come si può rilevare da ciò che ho cercato di evidenziare sopra, viene chiaramente alla luce in quest’opera una rappresentazione assolutamente nuova e originale della consistente e corposa realtà poetica che alimenta tutto il cinema di questo straordinario creatore di immagini, proprio perchè riproposta  in modo un po’ più positivo del solito anche se ugualmente amaro. Una caratteristica che forse a guardar bene era presente anche nelle opere più crudeli, pur se volutamente tenuta in sordina e mimetizzata, ma che questa volta diventa  invece un elemento assolutamente centrale della messa in scena, e soprattutto quella che permette fra l’altro – se mai ce ne fosse stato bisogno -  di rendere giustizia a una corposa serie di dannosissimi quanto limitativi schemi valutativi unidirezionali che spesso servono unicamente alla critica per facilitare il proprio lavoro di giudizio, inchiodando ogni autore a una “precisa , univoca modalità di espressione e di stile, che si pretenderebbe “immobile”,  “certa” e soprattutto immodificabile.

E quanto invece questa “variazione” programmata dello stile sia importante in questa pellicola, lo si evince proprio dall’impegno posto dal regista nel cercare di enucleare una forma autonoma di linguaggio che riesca comunque a coniugare ogni elemento anche in apparenza discordante, in una impostazione generale compatta ed unitaria priva di dissonanze disturbanti, pur nel cangiare degli atteggiamenti  dei due protagonisti (che si riflettono anche sulla struttura del racconto) e nel modificarsi progressivo della loro “impossibile” storia d’amore,  dal primo “trovarsi” e riconoscersi durante la processione (non a caso, come ci ricorda il Mereghetti, nella versione originale filmata a colori), quando lo sguardo di Nicki  perde il consueto tono compiaciuto e scettico che lo contraddistingue per diventare più umanamente curioso e disponibile (e l’indagine minuziosa che la cinepresa fa di questo momento fondamentale è insistita  e particolareggiata al punto di superare la stessa durata del tempo reale), fino all’ultimo quasi casuale sfioramento, quando la carrozza con gli sposi, dopo il matrimonio, si allontana dalla chiesa e Nicki  scorge inaspettatamente  dal finestrino, fra la folla, Mitzi piangente (lo spettatore attento, rileverà che nello sguardo dell’uomo compare allora per un istante, un’intensa espressione di commozione  che svanirà repentinamente subito dopo, quando rivolgendosi alla neo-moglie con un leggero inchino, avrà di nuovo stampato in volto il consueto impassibile flemmatismo). La stessa elegiaca impostazione tutta giocata sull’emozionalità dei sentimenti,  si ritrova anche  nella sequenza intermedia dell’incontro  sotto gli alberi fioriti  certamente soffusa di un ardente lirismo, ma capace di farci superare il romanticismo un po’ mieloso della situazione nel suo riuscire a trasmettere e a privilegiare, sia pure in una cornice un po’ “liliale”,  una dimensione più umana e realistica del trasporto amoroso che traspare prepotente (ma su questa scena torneremo ancora a parlarne più compiutamente in seguito).

I personaggi centrali sono dunque Nicki e Mitzi. Nella pellicola però c’è anche quello altrettanto fondamentale di Cecilia (la dolce e ricca ragazza claudicante) alla quale è assegnata analoga importanza, una figura rappresentata a sua volta con una costruzione tutt’altro che manierata, davvero esente da ogni impostazione un po’ stereotipata, poiché la sua assoluta (mal riposta) fiducia nelle decisioni del padre, che come si è visto giungerà a “svenderla” per il desiderio di entrare nella società aristocratica, l’incontro con il promesso sposo, la consapevolezza di una comunicazione impossibile con l’uomo, l’accettazione di un compromesso assurdo (e anche un poco umiliante), sono  resi con  la necessaria aderenza soprattutto di natura psicologica, utilizzando ancora una volta toni tristi e malinconici, sottolineati da una profonda partecipazione emotiva che si estrinseca attraverso uno sguardo spaurito, timido e insieme deciso, che mostra una nascosta, ferrea volontà di lottare per avere il sopravvento su una situazione persa in partenza e nonostante la menomazione che l’affligge (la seconda parte del “dittico” - perché come vedremo poi proprio di questo doveva trattarsi - avrebbe chiarito meglio l’evoluzione e la “fine” del personaggio).

Se si è dunque abituati a vedere nel regista solo un accentuato gusto per la violenza e un innato istinto per l’aggressività nel frequente connubio fra “amore e morte” da lui privilegiato e nel conflitto spesso evidenziato fra la natura biologica dell’uomo e le necessità economiche e sociali espresse dai bisogni più generalizzati di ogni collettività sociale, questa volta dobbiamo ricrederci e fare i conti con una inconsueta evidenza dell’umanità fortemente presente nelle sue immagini (o almeno in una grossa fetta di queste).

Come si è accennato infatti, accanto alla prioritaria  esigenza etica di “fare opposizione” a un mondo in decomposizione con l’esposizione anche estremizzata delle sue caratteristiche più tipiche e  violente, c’è anche la volontà di individuare una componente che potrei definire “vittoriana” che nemmeno la prepotenza e l’erotismo riescono a cancellare o nascondere,  nella quale primeggia l’esigenza di stemperare proprio le passioni forti come l’odio e la vendetta in modalità e momenti di più patetico sentimentalismo (e in von Stroheim – e in particolare in questo titolo – è possibile davvero ritrovare perfettamente fuse tutte queste tematiche sempre presenti e vive e se probabilmente ancora non ce ne eravamo accorti, è perché forse non abbiamo penetrato e interpretato davvero fino in fondo tutta la potenzialità della sua geniale creatività, rimanendo a nostra volta imbrigliati dentro considerazioni e interpretazioni “generalizzate” purtroppo un po’ schematiche e limitative (oltre che un po’ aprioristiche) del suo valore e della sua arte.

Traspare infatti, a una analisi più attenta, una umanità complessa e corposa nella quale convergono elementi di diversa natura, derivanti da  differenti influenze e stimoli, magnificamente amalgamati fra loro per dare del mondo una visione e una interpretazione più articolata, completa, profonda e compiuta.

Se, come si è visto, si delinea nel film una decisa presa di posizione contro una società fondata sull’ambizione e sul denaro, ci si concentra però allo stesso tempo e  con sguardo un po’ più pietoso, anche su certe figure forse meno centrali ma ugualmente problematiche, su certe situazioni che potrebbero già essere definite di “emarginazione sociale” (Schani, il macellaio, per esempio) con accenti che  cercano di individuare delle responsabilità, nel portare alla luce anche una  coscienza ben radicata  nel “perdente”, che lo induce a concentrare le sue risorse residue nel disperato e quasi inutile  sforzo di cercare di salvaguardare i pochi valori positivi che gli sono rimasti.  E questa considerazione acquista un’attendibilità particolare e importante in The Wedding March , soprattutto per il fatto che il film è rimasto molto più vicino di ogni altra sua pellicola al disegno originale del regista stesso (nel senso che  in questo caso – anche se ugualmente pesanti e umilianti  - sono molto più limitate le mutilazioni, le modificazioni, gli interventi, le censure e gli “aggiustamenti”, rispetto agli standard abituali che hanno sempre  opposto le genialità dell’autore alle ottusità  anche censorie dei finanziatori, che hanno vessato e stravolto le sue opere).

Quanta relativa importanza possa avere un simile chiarimento sulla autenticità dell’opera proprio per come venne presentata al pubblico rispetto al progetto e al girato, lo si può valutare considerando che non c’è stato un  film da lui realizzato che abbia potuto riconoscere davvero “completamente suo”: da Foolish Wives a Merry-Go-Round, a Greed, a Queen Kelly, è stata sempre una serie continua  e infinita di limitazioni, di licenziamenti, di tagli arbitrari, di riduzioni gratuite, di contrasti e di decisioni dei produttori in aperta opposizione e contrasto con l’autore che hanno snaturano profondamente un lavoro che -  “nonostante tutto” - è sempre riuscito a far trasparire la sua sconvolgente potenza espressiva. In ogni caso quindi, sotto questo aspetto, è proprio questo titolo il risultato che più corrisponde all’idea di partenza .

Visto però che è proprio e solo di The Wedding March che stiamo parlando, forse sarà il caso di evidenziare un  po’ meglio quanto ci è stato sottratto alla visione anche questa volta  (sia pure in maniera meno drammatica di altre circostanze come già detto). Il progetto iniziale del regista era infatti quello di realizzare il film in due parti distinte, ma da proiettarsi, salvo un breve intervallo, insieme. Il produttore aveva accolto l’idea favorevolmente, e Stroheim lavorò quindi in tale direzione portando compiutamente a termine le riprese (ma  la pellicola di cui ci stiamo occupando, rappresenta soltanto la prima trance). La distribuzione infatti non fu di analogo avviso e negò il consenso. Stroheim di conseguenza – fra tagli e imposizioni forzosamente condivisi, riuscì a montare solo il girato per questa prima sezione, perché il restante materiale che doveva  costituire l’epilogo, gli venne a sua insaputa sottratto, per essere affidato a  Joseph von Sternberg, al quale fu dato anche l’incarico di ricavarne un film indipendente dal primo. Questa pellicola (contenente un piccolo prologo che riassume le vicende della prima parte) ebbe per titolo The Honeymoon, ma fu proiettata solo in Europa e nel Sud America, perché negli Stati Uniti von Stroheim che si oppose tenacemente tentando anche, ma inutilmente, di dissuadere von Sternberg dall’accettare il cimento (che invece ha sempre  e impropriamente asserito di aver lavorato in perfetto accordo con  Stroheim,  clamorosamente smentito dal fatto che quest’ultimo ha invece disconosciuto da subito “quel” rifacimento), vinse la causa intentata e ottenne così che la  distribuzione fosse vietata.

Se dunque The Wedding March  si chiude con il matrimonio di Cecilia e di Nicki, la loro uscita dalla chiesa e quello scorgere dalla carrozza fra la folla il disperato e accorato pianto della ragazza, la seconda parte già completamente girata,  doveva prevedere le tragiche evoluzioni successive di quell’unione, partendo da un viaggio di nozze contrappuntato da una partita di caccia in Tirolo che si sarebbe conclusa con  la morte di Cecilia. Si può immaginare dunque che qui emergesse di nuovo in assoluta evidenza il barocchismo più tipico del regista e quel suo gusto per il racconto a tinte fosche, ma purtroppo di questa tragica luna di miele fra i due sposi,  in una versione o nell’altra, non rimane alcuna traccia per un possibile dibattito critico perché la pellicola è andata definitivamente distrutta.

 

Paragonato da Piscator a un romanzo di Balzac, il film è uno dei massimi capolavori della settima arte che, se fosse stato  rispettato il disegno, avrebbe dovuto costituire un tutto indissolubile, sia puree diviso in due parti. Vista da sola, quella  che ci rimane – così mutilata  nelle sue corrispondenze visive rimaste incompiute - potrebbe sembrare piena di digressioni e di qualche debolezza narrativa, proprio perché  privata del dramma e dei caratteri più vigorosi e violenti della tragedia  che si doveva consumare in chiusura, e l’assenza di questa necessaria “complementarietà”, si avverte più volte, per esempio nella già citata scena della carrozza (una vettura abbandonata) con i petali dei fiori del melo che la sovrasta, che cadono “poeticamente” su Mitzi e sul principe, una sequenza però preceduta da vari particolari “allusivi” più cupi e diretti (compreso quello di una scrofa che, sdraiata, allattava i suoi piccoli) potevano avere rimandi precisi non più verificabili, con la parte “sottratta” della deludente luna di miele di Nicki e Cecilia  interrotta dalla furia omicida di Schani, il macellaio. Di nuovo dunque e prepotente il dualismo “amore/morte” in questa seconda parte solo “immaginabile”, con  Cecilia che veniva uccisa per fare da scudo al marito, Schani a sua volta abbattuto, e Nicki che perdeva la vita  in guerra senza aver potuto prima coronare davvero il suo sogno d’amore con Mitzi.

Si comprende così ancora meglio il complesso percorso di un progetto ancora una volta molto articolato con due parti “speculari” ma di differente struttura, che dovevano “riflettersi” e completarsi l’una nell’altra.

Straordinario il contributo espressivo degli interpreti: accanto alla superba prova di von Stroheim (Nicki) troviamo infatti Fay Wray (Mitzi), Zasu Pitts (Cecilia), George Fawcett (Ottokar), Maude George (madre di Nicki) , George Nichols (Schweisser), Cesare Gravina (il violinista) e Matthew Betz (Schani, il macellaio).

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