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Quattro mosche di velluto grigio

Regia di Dario Argento vedi scheda film

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La recensione su Quattro mosche di velluto grigio

di maso
8 stelle

Il raro video di Dario Argento che scorrazzò in TV un paio di volte migliaia e migliaia di notti di terrore fa è stato un oggetto misterioso per decenni a causa della sua ardua reperibilità ma soprattutto per la sua assoluta singolarità nel terrificante panorama dei suoi incubi giovanili, molte delle caratteristiche di questo film non verranno più ripetute dal suo autore in futuro e per chi ha abusato di Argento in lungo e in largo da "Profondo Rosso" a "Phenomena" passando per "Inferno" e "Opera" potrebbe risultare dimenticabile e pieno di difetti, in realtà "4 mosche di velluto grigio" è un cult assoluto del cinema italiano anni settanta e quelli che potrebbero essere marchiati come difetti o stranezze nel genere thriller anche dal punto di vista prettamente qualitativo sono per me delle finezze ed elementi di spicco, perfino le inappropriate parentesi comiche. 

Gli aspetti più brillanti sono una regia vivacissima e meravigliosa di Dario Argento e una conseguente luccicante fotografia: tantissime sequenze memorabili si giocano su una location che passa dalla luce al buio o viceversa senza soluzione di continuità esponendo l’umore ad una trasmigrazione improvvisa dalla pace all’inquietudine o dalla tensione alla paura che è comunque costante fin dalle prime battute dove ci viene introdotto il protagonista Roberto Tobias, batterista rock pedinato e tenuto d’occhio da un losco figuro, l’incubo che perseguita Roberto descritto prima da un suo ospite e poi da lui stesso sognato per tutto il film è una scena in cui la luce è accecante e si ripete sempre dopo immagini buie del suo sonno faticoso ma anche i flashback del manicomio con le pareti composte da cuscini bianchissimi su muri oppressivi che girano intorno alla mente malata ed oscura del maniaco omicida sono di indubbio effetto, il parco in cui tramonta il sole e si stringe il terrore sulla vita della cameriera è un'altra finezza d'argento, il bel pedinamento concluso nella metropolitana buia ed i suoi gabinetti bianchissimi dove l’investigatore gay Arrosio scoprirà purtroppo per lui che per una volta aveva seguito la pista giusta, la camera mortuaria enorme di marmo bianchissimo che sembra l’atrio di un museo in contrasto totale con il laboratorio a luce spenta dove solo un raggio finissimo illumina lo schermo circolare bianco con le 4 misteriose mosche di velluto grigio fino al finale nell’oscurità ad intermittenza creata dal protagonista.

Argento sciorina una serie di tecniche di ripresa stimolanti per l’occhio dello spettatore e le sfrutta al meglio per raccontare una sceneggiatura inconsueta per lui dove un killer invisibile sotto una maschera inquietante pratica una tortura psicologica su un musicista che si è reso colpevole involontario di un omicidio, potrebbe sembrare forzata ma è invece talmente fluida che dopo i primi due film in cui era arduo individuare il colpevole stavolta con un ragionamento logico si può anche intuire chi esso sia, per il resto il terzo lavoro di Argento è figlio legittimo dei tumultuosi, ma ricchi di arte pura, anni settanta. Il nostro eroe è un batterista rock che avrebbe dovuto avere le sembianze di Ringo Star, il drummer più famoso del mondo al tempo ma forse per soldi o forse per valore fu ingaggiato il bel Michael Brandon, attore di scarso successo e poche doti espressive ma con la chioma adatta, una certa somiglianza con Ringo e quell’aria da batterista bastonato che ci sta proprio bene con i panta attillati a zampa, le camice strette con i bottoncini di madreperla ed il posterone di Roger Daltrey dentro casa oltre ai dischi in bell'evidenza dei Traffic e di George Harrison, il tutto è un aggancio perfetto per una colonna sonora molto rock e poco Goblin alla quale si affianca un tema classico del grande Morricone che esplode nel finale e si contrappone alle molte scene in sala di incisione dalle sonorità come detto rock dei primi anni settanta.

Intorno al drummer preso di mira girano tanti personaggi multicolore, alcuni dei quali mai più ripetuti nel prosieguo della carriera argentiana che oscillano dall’inquietante al comico come il postino quattrocchi, dal saggio Bud Spencer Diomede o meglio Dio e il suo amico professore Lionello che si ritrovano con il protagonista ad una fiera della bara di grottesca e macabra ironia, alla sfortunata Dania innamorata di Roberto che Argento sfrutta per girare una tenera scena d'amore nella vasca da bagno ma anche per una violenta picchiata sulle scale, dal migliore dell'intero cast Jean-Pierre Marielle l'occhio privato effeminato, all'intellettuale Satta Flores in pratica nato per questi ruoli logorroici, fino alla sempre semprissimo sopra le righe Mimsy Farmer che però oltre ad avere un elemento basilare per la scoperta dell’assassino è un’attrice che con il suo caschetto biondo e le sue esplosioni umorali si è ritagliata uno spazio singolare nella cinematografia underground europea di quegli anni pur essendo americanissima, oltre a questa prova è indimenticabile la sua interpretazione di Estelle in “More” di Barbet Schroeder.

La critica più aspra mossa a questo film è da sempre quella di mostrare un esame scientifico assolutamente fasullo per trovare una traccia che conduca al killer ma io non credo sia un motivo sufficiente per dare un giudizio negativo ad un lavoro così ricco di spunti come questo, i film di fantascienza sono carichi di inverosimiglianze ma non mi pare che questo sia mai il motivo per stroncarli o esaltarli, io invece rimasi colpito tanti anni fa dalla visione di questo giallo coloratissimo di Argento proprio per la sua eccentricità e rivederlo oggi a distanza di anni mi ha dato le stesse identiche emozioni, divertendomi e causandomi una sincera nostalgia per l’Argento che fu e non sarà mai più, è per questo che lo posiziono nella top 5 dei suoi lavori, forse nella top 3 e rischia veramente la top 1.

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