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Quanto è bello lu morire acciso

Regia di Ennio Lorenzini vedi scheda film

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La recensione su Quanto è bello lu morire acciso

di spopola
8 stelle

Per la mia generazione che negli anni giovanili della formazione ha fatto spesso (anche a sproposito), un parallelo diretto fra l’esaltazione assoluta del “Risorgimento” e la “Resistenza”, la figura degli eroi romantici  è stata uno dei riferimenti più struggenti e partecipati. In particolare e fra tutte, proprio quella di Carlo Pisacane, sorretta e “idealizzata” dall’iconografia  poetica di  quella spedizione fortemente miticizzata, cantata da Luigi Mercantini con i toni epici e un po’ melodrammatici della “leggendarietà” nella sua celeberrima  poesia  La spigolatrice di Sapri.

Era secondario per noi che l’esito fosse stato nefasto e che i contadini che – anche nelle ambiziose ma poco realistiche intenzioni  repubblicane del pensiero mazziniano - avrebbero dovuto unirsi a lui per alimentare l’insurrezione popolare che doveva emulare  ciò che  Simon Bolivar era riuscito a fare nell’America Latina, fossero rimasti, più che indifferenti, “quasi contrariati” dall’incursione militare, contribuendo così  a quel “massacro definitivo e totale” che mise  fine nel sangue a una impossibile e prematura “rivolta”: contava per noi l’anima e il senso del “gesto”, l’importanza della dedizione estrema alla causa che ci faceva immedesimare con fortissima empatia fino ad “amarli” visceralmente proprio quegli uomini rievocati in quei commoventi versi (Eran trecento, eran giovani e forti e sono morti…) invero anche un po’ retorici (Sceser con l’armi e a noi non fecer guerra, ma s’inchinaron per baciar la terra) che ogni antologia scolastica  riproponeva in assoluto primo piano  quando ancora si era soliti richiedere agli studenti l’acquisizione mnemonica delle liriche per poi recitarle in classe (e questa era certamente una del più gettonate insieme a L’ultima ora di Venezia… quella del  “sul ponte sventola bandiera bianca”, tanto per intenderci).

Per quel che mi riguarda, era proprio il 1952 quando a scuola e all’età di 10 anni,  imparai a memoria quelle accorate rime che contribuivano a farmi  condividere, “celebrandole” con orgogliosa ammirazione mista a compassione, le gesta del “martire/eroe” votato a un ideale a costo della vita (presentato proprio come “un santino” da venerare:

…Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro

   un giovin camminava in mezzo a loro

e ancora:

… O mia sorella… vado a morir per la mia patria bella)

 e raccontavano già la piena consapevolezza  del personaggio, che si trasformava in “scelta obbligata”, della bella morte “necessaria” e (in)utile  (quella che esalta le coscienze e fa sperare nel “riconoscimento” estremo del “grande gesto” per cambiare l’andamento della storia), che avrebbe ispirato persino il grande schermo (proprio in quell’anno uscì infatti  - a completamento di un’opera al tempo stesso commemorativa e divulgativa di ampio respiro popolare - il film  Eran trecento diretto dal regista e sceneggiatore Gian Paolo Callegari che riproponeva con altrettanta enfasi oleografica  di fortissima compartecipazione emotiva e altrettanto scarso valore artistico, proprio quei “fatti” e quella storia in forte odore di “leggenda”).

Le lezioni sui banchi della scuola (così come il cinema del periodo), evidenziavano infatti solo il lato positivo delle gesta (erano capaci di farci esaltare persino di fronte alla figura di Carlo Alberto, “il re triste” che si esiliò ad Oporto, il che è tutto dire) e il Risorgimento era miticizzato senza “se” e senza “ma” da libri e testimonianze che nascondevano e negavano totalmente i “tradimenti”, le compromissioni, le delusioni  e tutte le consuete trame che la politica e le connivenze  dei poteri forti avevano messo in atto in quel periodo comunque così fecondo (Noi credevamo  di Martone è opera recente e assolutamente “fondamentale” al riguardo per permetterci finalmente di fare una riflessione anche critica  di quella straordinaria epopea  svilita dalle trame e dagli interessi “di parte” e “di casta” che si riflettono sinistramente, e si perpetuano addirittura amplificati nelle loro nefaste implicazioni, anche sull’oggi).

I  tempi non erano evidentemente ancora maturi non dico per fare opera di revisione, ma anche semplicemente per tentare di impostare una seria analisi critica storicizzata: si pensi alle accoglienze ostili riservate a “Senso” di Visconti che per primo nel cinema riuscì a presentare  - nel 1954 - una visione più realisticamente credibile del movimento e dei “patrioti “ mostrandoci la guerra nella cruda realtà dell’evidenza (la battaglia di  Custozza - questo avrebbe dovuto essere  il titolo originario dell’opera – ultima vittoria dell’esercito Austro-veneto) per quello che era stata e per come era stata condotta (con il campo di battaglia pieno di cadaveri immolati, e le ferite terribili nelle vite e nelle coscienze), che fece gridare al disfattismo “ideologico” osteggiandone così anche i possibili riconoscimenti artistici a Venezia, dove fu “negata” la sua validità e importanza per mero calcolo dottrinale e “opportunismo” politico.

Se negli anni cinquanta ci si muoveva ancora in questa direzione di assoluta “cecità “ celebrativa degli eventi e della storia, nel decennio successivo le cose non andavano certamente in maniera molto migliore, visto che lo spettacolo “Bella ciao“, rassegna di canti popolari presentata a Spoleto con successo nel 1964,  costò al regista Filippo Crivelli, agli ideatori e agli esecutori, una denuncia “per vilipendio alle forze armate” (sic) per il semplice fatto di aver recuperato e riproposto una  ballata popolare come  Gorizia ritenuta lesiva dell’onorabilità dell’arma, perché  raccontava l’inutilità (e l’illogicità) per il grande – spropositato - dispendio di vite umane, di tutte le guerre, anche di quelle “giuste” e “necessarie”  di “liberazione” o riconquista  (O Gorizia, tu sei maledetta / Per ogni cuore che sente coscienza / Dolorosa ci fu la partenza / E il ritorno per molti non fu / O vigliacchi che voi ve ne state / Con le mogli sui letti di lana / Schernitori di noi carne umana / Questa guerra c’insegna a punir / Voi chiamate il campo d’onore / Questa terra al di là dei confini…/Qui si muore gridando assassini / Maledetti sarete un dì) e che le cose non andarono molto meglio nemmeno a Dario Fo negli anni immediatamente successivi  per il suo spettacolo “Ci ragiono e canto”  e la ballata “Fuoco e mitragliatrici”  (Non ne parliamo di questa guerra / Che sarà lunga un’eternità / Per conquistare un palmo di terra / Quanti fratelli son morti di già… / Fuoco e mitragliatrici / Si sente il cannone che spara / Per conquistar la trincea: / Savoia! – si va. / (…) / O monte San Michele, / bagnato di sangue italiano! / Tentato più volte, ma invano / Gorizia a pigliar).

 

Il primo serio tentativo di spogliare gli eventi, le gesta e i personaggi risorgimentali di quell’aura fortemente miticizzata, credo sia proprio attribuibile a Rossellini  che nel 1961 con il suo “Viva  l’Italia”  provò a raccontare con uno sguardo più oggettivo le gesta di Garibaldi e della spedizione dei Mille  dalla partenza (il 5 maggio) dallo scoglio di Quarto, fino all’incontro a Teano con Vittorio Emanuele (il 26 ottobre). La pellicola, nonostante qualche scompenso di un linguaggio cinematografico un po’ disomogeneo e i profondi ed evidenti compromessi storico-ideologici ancora presenti nella sceneggiatura, se non riuscì a demistificare del tutto i fatti, contribuì in maniera determinante a liberarli dalle scorie dell’elegia assoluta e a togliere l’epopea garibaldina dalle pastoie del mito e dell’oleografia nel dare alla rievocazione (preferibile la versione francese di 139’ rispetto a quella presentata “opportunamente “ ridimensionata in 106’ qui in Italia) proprio la necessaria, scarna concretezza della cronaca privilegiata dal regista.

Si dovrà aspettare però i sommovimenti del sessantotto (e le successive riflessioni su un “fallimento” che si profilava già minacciosamente all’orizzonte, radicalizzando così forse ancora di più le posizioni contrapposte fra l’ufficialità celebrativa sempre in agguato e il concreto pensiero popolare della riflessione meditata che iniziava a farsi strada) per poter davvero cominciare ad aprire brecce importanti e a guardare con un occhio più critico  e realisticamente cosciente il nostro passato, compreso quello relativo alle lotte e alle guerre di liberazione  risorgimentali: ecco allora che nel 1972 ci prova a farlo con assoluta attendibilità storica, Florestano Vancini con Bronte, cronaca di un massacro che fu molto di più di un pugno nello stomaco, capace di ridimensionare proprio con questa francescana (nei mezzi) pellicola l’epicità un po’ stucchevole di un eroismo di maniera e di farci così comprendere anche alcune delle ragioni  di una frattura mai colmata che teneva ancora troppo lontano il popolo dalle ideologie delle menti più illuminate  che  “pretendevano” il cambiamento senza condividere però le regole per realizzarlo, e non riuscivano a far comprendere ed accettare quei sistemi repressivi che sembravano perpetuarsi anche nella nuova realtà in movimento e che continuavano a lasciare il proletariato comunque schiavo e subordinato al potere.

 

Carlo Pisacane e il suo sacrificio “umano” (in filigrana ci si poteva leggere per altro un parallelo proprio con l’impresa Bolviana di Che Guevara  finita in maniera altrettanto tragica che i rivoluzionari “scientifici” deplorarono,  considerandola una “inopportuna” cecità spontaneistica  inesorabilmente votata alla sconfitta, mentre i libertari - al contrario  - infervorati da una visione più progressista e rivoluzionaria delle cose, furono portati a esaltarla e forse a considerarla ancora come l’unica strategia vincente “nonostante tutto” per cambiare il mondo e le cose) rimaneva quindi un elemento centrale anche di un possibile “dibattito” sulla disumanità crudele di una morte dovuta aun tradimento, ma motivata forse da una straordinaria (e  purtroppo perdente) utopia del pensiero socializzante della lotta che a metà di quel decennio continuava ad infiammare gli animi e che forse consentì per questo sue essere “attuale”, la realizzazione di due opere importanti, in misura e maniera diversa, entrambe impostate sulla spedizione in Calabria di quel manipolo di idealisti, ma in fondo però anche abbastanza differenziate nella esposizione del “pensiero” non solo critico ma anche di giudizio (e posizionamento) “ideologico”.

Mi riferisco a Allonsanfan dei fratelli Taviani del 1974 (vera e propria riflessione politica sui movimenti  “concettuali” del pensiero della sinistra di quegli anni) e questo  Quanto è bello lu murire acciso realizzato da  Ennio Lorenzini  l’anno successivo (1975) che racconta il personaggio e la sua storia come in una ballata popolare e che si articola e si sviluppa con il linguaggio asciutto, diretto ed essenziale, dei cantastorie (lo fa a partire dal titolo “particolarmente” simbologico che riprende il verso di un canto di tradizione rielaborato e impreziosito “musicalmente” da Roberto de Simone che è responsabile in toto dell’intera, straordinaria colonna sonora).

Sbagliò l’ex ufficiale borbonico Carlo Pisacane a progettare la spedizione di Sapri (1857), tentando con pochi compagni e qualche centinaio di ergastolano liberati a Ponza di sollevare le plebi calabre? Sembrerebbe in prima istanza che sia proprio questo che  intende domandarsi  il regista, con un evidente occhio rivolto al “Che” però,  come già accennato. Le ambizioni in ogni caso sono di più ampia e vasta portata e la pellicola  per cercare di dire tutto quello che c’era da dire sull’argomento, si spezzetta così e si frammenta disperdendosi un poco, in una serie di aneddoti che rischiano di impoverire in parte – per la troppa carne messa al fuoco - proprio la figura complessa e “centrale” di Pisacane, fino a farla diventare quella di un astratto eroe della rivoluzione, certamente svicolato dal “santino”  in stile Mercatelli (fin dalla scelta dell’interprete, il  pregevole Stefano Satta Flores, molto lontano anche “fisicamente”, oltre che nei colori ”, da  quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro liricamente radicati nell’immaginario collettivo dell’epoca), ma senza fargli assumere una dimensione più “umanamente” strutturata e fornirci di conseguenza un quadro sufficientemente esaustivo delle sue origini “storico/biografiche”.

Film di forte contrapposizione ideologico-politica, dunque, quello di Lorenzini ha in ogni caso il merito di riaprire una diatriba di posizionamento di pensiero  mai del tutto risolta, e forse risiedono proprio in questo anche alcuni suoi evidenti limiti (in parte dovuti però proprio alla inesperienza di un regista di estrazione “documentaristica” qui alla sua prima prova con un film a soggetto, che molto osa e non tutto riesce davvero a risolvere  non per mancanza di cuore, ma per inesperienza). Per esempio non pare che evidenzi con chiarezza il livello europeo della figura di Pisacane e il carattere paradigmatico della sua esperienza (e il suo rapporto “ideologico” con Mazzini e la Giovane Italia), e in questo caso, un realizzatore più “rodato”, dotato già di una tecnica appropriata, avrebbe certamente potuto fare di più, pur con la penuria dei mezzi economici che gli erano stati messi a disposizione..

Ennio Lorenzini, portando sullo schermo la sfortunata spedizione calabrese di Pisacane e compagni, è stato comunque molto coraggioso e non si è lasciato intimidire dalla materia: ha preferito per questo correre i rischi dell’incompiutezza che derivano proprio  dalla rinuncia (encomiabilissima) di ogni indugio narrativo sugli aspetti marginali della vicenda per offrire allo spettatore  un’immagine critica e non cronachistica (e quindi in un certo senso, più difficile ed incisiva da mettere in scena) di una sommossa risorgimentale e dei suoi artefici, privilegiando nella narrazione analitica dei fatti  il dibattito ideologico rispetto al mero compiacimento descrittivo degli eventi che pure avrebbero avuto il loro indubbio fascino.

La tendenza a vanificare nel nozionismo la reale portata socio-politica del Risorgimento, riducendolo a una serie di date e di eroismi individuali, unificati da una generica aspirazione alla libertà, e ignorandone completamente le matrici di classe, era particolarmente presente e accentuata nella tradizione scolastica e culturale dell’epoca, e se era forse insufficiente per molte ragioni, aveva per lo meno il pregio di mantenere profonde radici nell’opinione comune, fino a diventare elemento condiviso di conoscenza, così che era più facile far comprendere – anche un po’ empiricamente - il proprio differente punto di vista sia pure in parte “viziato” da una non completa messa a fuoco della lente di ingrandimento scelta per illustrare i fatti.

Intendiamoci bene, sono  difetti marginali che non inficiano il risultato complessivo di un’opera stimolante e per niente pedantesca. Infatti l’economia  (non semplicemente  dovuta però alla scarsità dei mezzi, ma rispondente a una precisa necessita espositiva) dimostrata dal regista  in alcune sequenze di pura cronaca come in quella dell’uccisione di Pisacane e degli altri rivoltosi (per altro di particolare impatto anche emotivo), oltre che il montaggio ellittico scelto nella costruzione stilistica  delle immagini che elimina – baipassandoli - i passaggi ritenuti superflui per puntare direttamente al lato problematico degli avvenimenti, non pregiudicano affatto uno sviluppo articolato delle vicende della storia, ma rendono semplicemente il lavoro più essenziale e diretto. Si  articolano infatti su una linea di sostanziale fedeltà rispetto agli accadimenti reali e storicamente documentati, che vengono però dilatati dal regista fino a far loro raggiungere un livello di significazione superiore attraverso un’affabulazione anche “divulgativa” che supplisce  alle lacune della certificazione ufficiale tramandata dagli storici,  nel suo quasi maniacale  ricostruire e rintracciare precisi nessi fra un episodio isolato del Risorgimento e il patrimonio generale delle idee e dei movimenti  non solo di quel periodo, ma più genericamente riproiettati nella contemporaneità (e quindi resi accessibili anche per un ipotetico impiego “futuribile”). Si utilizza così la storia, ma senza fare della filologia (un po’ alla maniera del Rossellini didattico insomma) e soprattutto senza tentare di dare alle  vicende narrate un  “raffreddante” e  deleterio distacco di obiettività assoluta.

In Quanto è bello lu murire acciso insomma, ogni personaggio o situazione immaginata, pur conservando un rapporto di piena attendibilità con  la realtà storica, risponde prioritariamente a una esigenza ideologica ben precisa, chiarisce come meglio non sarebbe stato possibile fare, proprio le linee interpretative della coscienza di un autore che ha inteso  mettere in luce prima di tutto gli elementi innovatori del pensiero di Pisacane (ben definiti per esempio dal colloquio  del protagonista con i mazziniani del Comitato napoletano: il fondare il concetto di libertà su un’eguaglianza economica e non soltanto giuridica e politica, l’insistere su una convergenza fra i ceti medi e le masse diseredate contro il dispotismo della monarchia borbonica, ecc.) ma senza dimenticare di denunciare nel contempo, anche alcune pericolose  arretratezze, che risiedono  in definitiva  nell’incapacità di un uomo – di estrazione  borghese - di liberarsi dai retaggi cristallizzati della propria formazione  per arrivare davvero a comprendere i bisogni reali – e a quelli adeguarsi - di quei ceti proletari che avrebbero dovuto essere i destinatari principali delle sue azioni  e costituire l’obiettivo primario (che i fatti pratici vanificheranno) della sua missione suicida.

Questa non è una banda, ma un esercito rivoluzionario – dice Pisacane agli uomini  reclutati a Ponza. Un richiamo all’ordine che denuncia chiaramente un concetto ancora tutto borghese  della disciplina militare, dimostrato anche dal successivo, tragico episodio in cui un popolano volontariamente arruolatosi in quell’esercito di “rivoltosi”, per una infrazione di minima gravità, verrà fucilato in base proprio alle “regole” imposte  dal rispetto assoluto della disciplina militare, episodio  questo davvero fondamentale che diventa anche il chiaro ed evidente estremo segnale della spaccatura  “insanabile” fra il protagonista e la popolazione locale, e l’elemento principale di “incompatibilità” che porterà poi al fallimento della spedizione stessa.

Le due entità si toccano, si sfiorano dunque ma non si amalgamano, convivono ma rimangono sostanzialmente l’una estranea all’altra, né riescono minimamente a comprendersi davvero nemmeno nell’uniformità dell’obiettivo da raggiungere: i contadini vivono nell’isolamento di una cultura emarginata dalle classi dominanti, che esprime la propria forza eversiva sopratutto nella virulenza del canto popolare che quasi mai riesce a trasformarsi in azione, ma ha codici spesso incomprensibili per chi è stato educato nelle scuole dell’alta società ed ha una differente concezione persino dell’etica, dei doveri e delle responsabilità, oltre che dei bisogni primari della propria esistenza.

Per Pisacane ciò significa arrivare a considerare allora per lo meno il bel gesto individuale del sacrificio della propria vita, come una soluzione positiva (probabilmente persino l’unica davvero percorribile), anche se di fatto del tutto subalterna al sistema, ma in grado per lo meno di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su una condizione di oppressione collettiva. 

Sotto il profilo tecnico, Quanto è bello lu murire acciso,  nella scelta dei campi lunghi e delle tonalità di colore, si avvicina molto a Allonsanfan dei Taviani, ma non lascia però alcun analogo spazio per la vitalità dell’utopia  proposta appunto da quel film e da quei registi. Lo stile è essenziale e lucido, tale cioè da non ammettere consolatorie ed esaltanti illusioni di un futuro già a quel momento invero “poco rivoluzionario”: esso consuma dunque la sua funzione anche figurativa in una ordinata rappresentazione dei fatti che si  esauriscono quasi per  “combustione interna”, per l’assenza di una prospettiva concreta di successo dovuta alla mancanza di una effettiva dialettica col mondo circostante ben evidenziata dallo svolgimento pratico del lavoro e dei rapporti.

Sviluppato su tre piani diversi e contrapposti, Pisacane, l’ufficiale borbonico suo antagonista, i contadini, vorrebbe fornire un insieme coralmente polifonico delle voci (progetto fortemente ambizioso non pienamente realizzato però,che spesso si risolve invece in “assoli”). Soprattutto l’aspetto popopolare, è sorretto e si vivifica principalmente in virtù dello straordinario “epos” delle musiche: a collaborare alla perfetta realizzazione della bellissima colonna sonora che diede origine  anche a un vinile di successo  pubblicato dalla RCA, accanto a  de Simone ci sono anche  una giovanissima Lina Sastri, Virgilio Villani (della Nuova Compagnia di canto Popolare), Tommaso Bianco e l’artista di strada Francesco Tiano (oltre al brano che riprende il titolo del film e che ne segna i momenti drammatici, si aggiungono al commento sonoro del racconto le note delicate della Marinaresca, forse uno dei brani più belli, ma si segnala anche Massune e Giacubbine, una tarantella di tipo ottocentesco che rende particolarmente evidente il lavoro di accurata ricerca storica musicale del compositore, e la travolgente Tarantella del carcere).

Nel film allora (e fra i tre piani della narrazione), singolarmente l’elemento e la figura che meglio risulta in evidenza è proprio quella dell’antagonista, il maggiore dell’esercito borbonico (una straordinaria prova di un ispirato Giulio Brogi)  che è poi il solo che dimostra di avere una visione complessiva della realtà e soprattutto quello che possiede adeguati strumenti per operarvici dentro. E’ lui infatti l’uomo che intuisce (ed è capace di farlo anche praticamente) che è possibile sconfiggere quei sovversivi più con la testa che con le armi, sfruttando cioè a proprio vantaggio i conflitti d’interesse fra latifondisti e contadini e giocando sull’ignoranza dei secondi. Egli racchiude dunque in sé – perfettamente delineata - la coscienza della nascente borghesia disposta, quando le misure poliziesche non bastano più a esorcizzare il fantasma di quanti muoiono per la libertà e ad evitare che altri ne seguano l’esempio, a concedere qualche riforma, purché non muti però nella sostanza, la struttura del potere ad essa più congeniale e utile.

Tornando invece a Pisacane, è il filo delle meditazioni solitarie del personaggio che segna  il cammino di una classe cresciuta all’ombra della nobiltà e poi sostituitasi ad essa senza fasi progressive, e che diventa l’assunto storico necessario che si salda al presente (l’intento didascalico della scelta si apre persino a uno spunto un pò polemico: la borghesia clientelare e opportunista, che si intravede nelle concezioni del maggiore, ha vinto nel Sud, ma le masse meridionali non si trovano nelle stesse condizioni di allora, fissate nella loro secolare immobilità dal finale del film? che diventa anche un serio spunto di riflessione “politica”)

Il film ha un finale poi che molto ha fatto discutere (ma che io trovo di particolare interesse): la macchina da presa si dilunga dopo l’eccidio, sulla spoliazione dei cadaveri dei rivoltosi da parte dei popolani, un episodio chiarificatore che dimostra come questi non abbiano afferrato le radici sociali della sommossa (e che sintetizzano il “fallimento” anche ideologico dell’azione), ma ce n’è uno fra questi, che si differenzia: ‘Ntoni, l’unico che aveva scorto in quel movimento la possibilità di un riscatto dalla schiavitù e si era posto a capo di un gruppo di contadini di “inutile sostegno”all’azione, che si allontana dopo aver raccolto da terra il fucile di Pisacane: segno  di una lotta che continua ancora oggi (in un finale un po’ troppo populista come è stato additato dai più), o amara  constatazione di una rivolta che solo nella rabbia del singolo, inevitabilmente perdente, può trovare espressione?

Forse semplicemente un messaggio di apertura per lasciare aperta una piccola “fessura” che alimenta la speranza.

Come si può ben comprendere da tutto quanto ho esposto sopra Lorenzini “reinvesta” allora a suo modo la storia della spedizione portando in primo piano lo spontaneismo dell’azione, ma rispettando lo spirito patriottico “idealistico” che l'animava (al regista  sembra che faccia piacere immaginare addirittura – lo si avverte nelle pieghe del racconto - che il maggiore dell'esercito borbonico incaricato di combattere i rivoltosi condivida in fondo quasi moralmente i nobili propositi che animavano la spedizione, ma che sia altresì consapevole “dell’inattualità” dei tempi, e questo contribuisce notevolmente  a fornire, di quella pagina di storia, un’immagine fortemente dialettica e problematica).

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