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L'avversario

Regia di Nicole Garcia vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'avversario

di Theophilus
8 stelle

L’ADVERSAIRE

 

 

L’avversario è colui che sta dalla parte opposta a un altro che gli si contrappone, il rivale che si trova, appunto, sull’altra sponda, parallela: come tali, i due non s’incontreranno mai.

L’adversaire della regista francese Nicole Garcia – in concorso a Cannes 2002 e che Aldo Tassone non è riuscito a portare a France Cinéma - è la seconda personalità che coesiste con un’altra nella stessa persona del dottor Jean-Marc Faure. Quale sia la prima in verità è difficile a dirsi. Ricostruzione di una vita realmente vissuta e di fatti veramente accaduti- il film è tratto dall’omonimo romanzo di Emmanuel Carrère e si appoggia sugli atti del processo che seguirono gli avvenimenti - L’avversario ha per interprete principale l’ancora una volta eccellente Daniel Auteil, che sconcerta per la sua capacità di mimesi.

Il dottor Faure, stimato medico che lavora alla O.M.S. di Ginevra, padre di famiglia da una parte, nessuno dall’altra.

Dopo aver superato i primi due esami alla facoltà di medicina, al momento di sostenere il terzo è abbandonato da ogni forza – non sentivo più le gambe – è preso dalla paura di vivere e gli viene a mancare la capacità di volere. Da quel frangente nasce in lui la necessità di inventarsi un’altra vita, che riesce a contrabbandare per vera al mondo esterno –  moglie, figli, amici, rapporti sociali: nessuna laurea, nessun lavoro, nessun potere economico; come tale, questa cronaca agghiacciante della vicenda di Jean-Claude Romand, che il 9 gennaio 1993 cancellò la sua famiglia, non più in grado di conciliare – dopo però 18 anni – la sua esistenza fisica con le ramificazioni cerebrali del suo alter ego, è l’annichilente prova che nel mondo di oggi si può andare avanti anche solo con l’apparenza, che è quella che gli altri vogliono percepire.

Faure gestisce del denaro affidatogli dal suocero: quando quest’ultimo glie ne chiede indietro una parte per l’acquisto di un’automobile, non disponendone più, egli è alle strette. La provvidenziale morte dell’uomo procrastina per un po’ lo scoppio della bomba che coinvolgerà l’uno dopo l’altro tutti coloro che gli stanno accanto. Tutti verranno eliminati dalla sua 2^ personalità, che Faure in un estremo gesto di autodifesa non riconosce (finge di non riconoscere?), in una escalation angosciante in cui il personaggio non agisce in base ad una furia incontrollata, ma mantiene un atteggiamento calmo, quasi estraneo, forse convinto di poter continuare a recitare la sua vita normale o coll’alibi che quanto accaduto, accade, sta accadendo, non è disposto da lui stesso, ma dall’altra sua personalità.

Persona schiva, indifesa, che ci si sentiva in dovere di proteggere, dirà di lui alla polizia l’amico e compagno di studi. Persona che dietro la doppia personalità celava l’esigenza di mascherare le sue inibizioni e frustrazioni (fatale chiave di volta il banale episodio della votazione per il licenziamento dell’insegnante della scuola in cui studiano i figli. Faure stenta ad esprimere un parere, forse vorrebbe defilarsi o contrastare l’unanimità degli altri favorevoli al licenziamento, ma non ci riesce e alza la mano allo stesso modo di tutti i genitori presenti. Alla moglie Christine, l’altro dirà invece di essersi opposto con forza – unico – a quella decisione: dall’inquietante interrogativo della donna avrà origine la discesa all’inferno ).

Il piano d’azione del film è un altalenante saliscendi in cui i flashback non sono un voluto espediente retorico, come spesso accade, bensì lo specchio di quella duplice mente che ha bisogno di incasellare i ricordi per gestire la sua doppia esistenza.

Oltre alla già citata e camaleontica bravura di Daniel Auteil, vanno menzionate le interpretazioni di Geraldine Pailhas, che impersona la moglie Christine, e di Emmanuelle Devos, l’amica/amante, che avevamo tempo addietro già ammirato in Sur mes lèvres, di Jacques Audiard. Molto brava la regista - ella ha saputo mantenere alta la tensione nell’arco di tutta la pellicola , che non sapremmo se definire più noir o più thriller -  di cui ricordiamo Un weekend su due (1990) e Place Vendôme (1998).

E’ infine ineludibile ed automatico (anche per chi fosse all’oscuro dell’identità della fonte dei due film) il parallelo con la pellicola di Laurent Cantet, L’emploi du temps, vincitrice del Leone dell’anno alla 58. mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Entrambe svolgono il tema dell’utopia del tentativo di far convergere in un unico punto la realizzazione individuale con la necessità sociale, la conseguente fuga dell’io ed ambedue – seppure in gradi e modi molto differenti fra loro – hanno un epilogo tragico: se il film di Cantet,  meno aderente alla oggettività dei fatti, è più filosoficamente teso alla descrizione di un disagio socio/esistenziale che strania il protagonista, quello della Garcia inchioda lo sguardo con la sua impassibile rappresentazione in cui, senza quasi che ce ne avvediamo, l’orrore si alterna ad un senso di pietà per la natura di Faure/Romand.

Molto semplicemente si deve dire che un film come questo fa paura: non si tratta di quella sensazione che i grandi maestri del thriller sono stati in grado di provocare nello spettatore con la loro arte, bensì di un sentimento di angoscia che prende guardando dentro uno specchio che può riflettere un’immagine che mai avresti temuto di dover vedere, sia essa quella di una persona che ti sta accanto o la tua.

 

 

Enzo Vignoli

24 aprile 2003  

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