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24 Hour Party People

Regia di Michael Winterbottom vedi scheda film

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La recensione su 24 Hour Party People

di Stefano L
7 stelle

24 Hour Party People - Wikipedia

 

Vita, morte e “miracoli” di Tony Wilson (il bravo Steve Coogan, fa anche da narratore), personaggio di rilievo dell’evoluzione musicale britannica degli ultimi quarant’anni. Fu lui infatti a far esibire, nel suo programma televisivo locale “So it Goes” (stiamo parlando del lontano 1976), i maggiori musicisti punk e alternativi snobbati dal mainstream, ovvero i Sex Pistols, i Buzzcocks e soprattutto i Joy Division (all’inizio ironicamente scambiato per un progetto fascista dato che il nome era riferito alle camere femminili dei campi di concentramento, ma ovviamente malinterpretati), fondando nel 1977 la FactoryRecords, l'unica etichetta completamente anarchica che permetteva una libertà artistica incondizionata alle band che produceva. La prima metà del lungometraggio, ambientata nei tardi settanta, è dedicata proprio ai Division, specialmente al cantante Ian Curtis (Sean Harries), ed al suo affaticato percorso professionale che lo portò ad essere consacrato come uno dei più talentuosi front-man mai visti. La fotografia è filtrata con un avvenente "castano sbiadito", ed alterna le solite immagini di repertorio a un montaggio comunque ben coordinato tra vecchie riprese live e fiction documentaristica. Poi inizia l’”Atto II”, subito dopo il video omaggio dedicato a Curtis (si suicidò nel 1980), il 21 maggio 1982, quando Wilson inaugura a Manchester il club Haçienda; i colori cominciano a saturare, e qui si (s)cade sulla mediocrità stilistica. Dei New Order (altro gruppo storico) o solo dei loro natali non viene menzionato nulla di seriamente interessante. È messo in risalto il fatto che "Blue Monday" sia diventato in poco tempo il dodici pollici dalle vendite maggiori nella decade. E "Movement" (1981)? "Power, Corruption & Lies" (1983)? "Brotherhood" (1986)? Nessun accenno a riguardo. Vengono esposti pedestri episodi di droga e di liti con i manager conseguenti agli esosi investimenti di Wilson in modo da abbellire il locale (comprava oggetti di design costosi). Si passa dunque alla fine degli ’80, quando prende piede il fenomeno della rave culture e della acid-house, la beatificazione del ritmo; l’età dell'elettronica di massa cavalcata in pieno (suggestive le parti in cui Coogan si ritrova in mezzo alla folla in delirio che scompone gli spazi sul groove di "Voodoo Ray" di Guy Called Gerald). Arrivano gli Happy Mondays a dominare la scena Brit Pop, ed affiorano le asperità con la giustizia dovute al traffico di stupefacenti nel locale, serio problema di ordine pubblico dell’era post-tatcheriana. Ancora niente di particolarmente intrigante su ciò che dovrebbe concernere la musica nella posizione adottata dal regista Winterbottom, il quale si limita a rappresentare usando un fastidioso macchiettismo gli stessi Mondays, nonché la mielosa relazione di Wilson e Miss UK Yvette Livesey. Da qui fino alla chiusura della nota discoteca (1997) si zoppica un po' con dei confusi anacronismi. Si ride... alcuni aneddoti sono divertenti, ma si tratta pur sempre di grami momenti di sottili/rocamboleschi ricordi (memorabile in ogni caso la discussione del 1992 di Wilson assieme ai proprietari della London Records al fine di non "svendere" la Factory per motivi di business). Finale inusuale, tra misticismo filosofico e reminiscenze malinconiche… dal film in sé mi aspettavo però qualcosina in più…

 

 

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