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Radio Killer

Regia di John Dahl vedi scheda film

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La recensione su Radio Killer

di Immorale
8 stelle

Mai scherzare con un camionista. Pur non volendo considerare gli “insegnamenti” cinematografici di maestri quali Spielberg (Duel, 1971) e Peckinpah (Convoy, 1978) basterebbe farne una pura e semplice questione di stazza: lui guida un bestione di parecchie tonnellate superiore al peso della vostra auto, foss’essa anche una tipica “Muscle Car” americana.

 

 

E poi, pensateci bene: guidare per ore (e giorni e mesi e anni) su strade interminabili, dopo un po’ tutte uguali a se stesse, dall’orizzonte infinito quanto i dettami dell’American Way of Life, con soste in alberghetti polverosi ed in ristoranti non tutti degni di questo nome stuzzicherà pure l’immaginario dello spettatore medio, che ne mitizzerà l’effimero e scontato realismo, ma dopo qualche tempo trasformerebbe probabilmente anche l’uomo più gentile in un archetipo umano oscillante in una forchetta caratteriale compresa, ai suoi estremi, tra il “lievemente scorbutico” e il “feroce serial killer”.

 

Tali conoscenze e considerazioni vengono ampiamente disattese dai due fratelloni protagonisti di questo film, figli l’uno (Lewis/Paul Walker) di un tipico sogno della media borghesia, fatto di studi e buone intenzioni, innamoramenti e spensieratezza giovanile, e l’altro (Fuller/Steve Zahn) del suo contrario, caratterizzato cioè da un comportamento cialtronesco e scansafatiche che lo porta spesso ad essere ospite delle patrie galere per risse o ubriachezza molesta, nel loro viaggio/vacanza “On the road”.

 

 

Su queste apparentemente scontate premesse (c’è pure la biondina belloccia Venna/LeeLee Sobieski a completare il trio) del medio thriller per teenager, il regista John Dahl si dimostra abilissimo nella stesura del suo notevole talento visivo (splendida la fotografia) e nel destrutturare autorevolmente la materia trattata; che non può esimersi da alcuni cliché ma che trasforma le strade in un ombroso sistema circolatorio dell’immenso corpaccione dell’America a stelle e strisce, trasportante elementi vitali alla sua sopravvivenza (le merci e i sogni) ma anche scorie non facilmente eliminabili dal sistema (l’abbruttimento e la solitudine).

 

 

Con precise citazioni dai maestri, da bravo operaio della mdp, ma gestendo ottimamente la tensione, come nell’esemplare sequenza dell’omicidio nella stanza d’albergo, tutta giocata sul non visto e sul non sentito, in un gioco sfibrante di sussurri percepiti attraverso una parete troppo sottile, o nell’inseguimento notturno nel labirintico campo di grano con alle calcagna uno sferragliante e torreggiante minotauro su ruote. Con riprese ariose ma dai primi piani precisi quando serve focalizzare, o con inquadrature omissive quando serve sottrarre all’occhio per arricchire l’afflato thriller. Con una voglia quasi sadica di ridicolizzare nel piattume quasi caricaturiale dei momenti di quiete le reazioni dei tre protagonisti, non sempre consapevoli della portata delle proprie azioni. E con una idea tanto bislacca quanto geniale: far scaturire l’orrore dal magma elettrico e sferragliante di un antelucano impianto CB (negli anni 2000 del Dio telefonino !), con i suoi vuoti sonori e le attese di una risposta che sembra provenire da chissà dove, ma comunque da un luogo dell’etere apparentemente non piacevole.

 

 

(Sano) cinema di genere, come non sempre si riesce più a farne.

 

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