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Signore & signori

Regia di Pietro Germi vedi scheda film

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La recensione su Signore & signori

di MarioC
9 stelle

Pietro Germi e la provincia italiana: una lunga storia di amore/odio, un magnifico romanzo cattivo e tenero, sadico e malinconico. Ma mai e poi mai complice.

C’era una volta la commedia all’italiana. Capace di analizzare, vivisezionare, frustare, lasciando ad una risata da paresi il compito di un commento morale. Se un copione deve prevedere personaggi che rappresentino ed incarnino il loro tempo, occorrono soprattutto penne che non abbiano paura di velare giudizi morali pesantissimi dietro l’apparente leggerezza. Ed è in questo che sta ogni possibile differenza tra i modelli e gli epigoni: oggi, sceneggiatori correi e corrivi, che sbozzano figurine mostruose con l’intento di darle in pasto ad un pubblico che presumono vivere ed operare sullo stesso piano di quelle maschere, con le quali, allora, non è possibile non immedisimarsi, con la bonomia del todos caballeros; ieri, inflessibili moralizzatori capaci di distanziarsi dalle loro figure, di coglierne la repellenza e di offrirla ad occhi ritenuti vergini o, almeno, non ancora corrotti, non esattamente corruttibili.

 

Inutile citare esempi di quest’orrido oggi, necessario fare invece due nomi del passato: Luciano Vincenzoni e Pietro Germi. Una scrittura pulitissima ed acre al cospetto di uno stile di regia pienamente cattivo, da entomologo dell’anima e spazzacamino delle meschinità. Dopo Divorzio all’italiana e Sedotta e abbandonata (il primo dei quali non vide comunque la partecipazione di Vincenzoni), il binomio si ripete in Signori & Signori, canto funebre della provincia italiana, museo degli orrori, scatenato eppur compostissimo balletto di meschinità, apparenze, fuochi fatui di varie vanità. L’accento che Germi mette in bocca ai suoi personaggi è inequivocabilmente veneto, e la città è indiscutibilmente la bellissima Treviso: eppure, ennesimo e consapevole sberleffo, non vi è un solo accenno concreto alla location e le macchine risultano targate RZ (come Razza da Zimbello, viene da pensare). Il Veneto bianco, cattolico e benpensante, dunque, quale metonimia di un intero Paese colto da improvviso benessere che andava innestandosi su cultura traballante, punti cardinali nomadi e zoppicanti, tetragona chiusura nei propri valori di riferimento tracciati da bigliettoni, pellicce, auto e, soprattutto, articoli di bigiotteria della fondamentale rispettabilità sociale.

 

 

Signore & Signori si struttura in tre episodi, ciascuno dei quali valido a sé stante, ognuno tuttavia considerabile quale tassello di un puzzle sociale che prevede gli stessi protagonisti, le stesse ipocrisie, le medesime risate alle spalle dell’altro, in un effetto domino che travolge tutto e tutti, non salvando nemmeno gli zotici e le di loro figlie, tantomeno le donne angelicate che qualche scheletro in un passato armadio devono pur averlo. L’uomo che si finge impotente (un Alberto Lionello che ha negli occhi la tranquillità luciferina del, ebbene sì, paraculo) per sedurre la giuliva moglie dell’amico medico (uno strepitoso, e sempre sottovalutato, Gigi Ballista); il bancario frustrato che si innamora della timida e pudica cassiera (Gastone Moschin nel ruolo forse migliore della carriera, dopo lungo e sofferto testa a testa con quello di Amici miei, non a caso creatura profondamente e totalmente germiana); la ragazza minorenne che si fa sedurre da tutti i maggiorenti della città nell’attesa di una vendetta affidata al genitore contadino fintamente tonto, realmente mostruoso, perché inevitabilmente contaminato dagli umori mefitici di quell’aria provinciale che si offre democraticamente a tutti. Tre barzellette di sostanza, tre spaccati di una realtà che ha perso i giorni (ovvero si trascina tra riti quotidiani sempre uguali), tre esercizi di quello stile cattivo e morale (non moralista) in cui Germi spiccava, con la serena forza del censore allegro.

 

 

In Signore & Signori possono intravedersi in tralice i profondi tratti dell’amarezza, il gusto sadico dello sberleffo, la mancanza di compiacenza, l’assoluto rifiuto di parentesi melense che riequilibrino un baricentro narrativo pericolosamente tendente al pamphlet. Germi aveva granitiche certezze diluite nella vista lunga della tigre graffiante, ma anche la grandezza di lasciar sedimentare una vena di malinconia difficilmente mondabile. Il riferimento ad Amici miei non era un caso: Signore & Signori ne costituisce viatico, antefatto e prequel; nei giorni lunghi e senza meta annacquati in scherzi da liceali perenni è facile riconoscere la medesima perdita di senso, la stessa beota allegrezza, la pedissequa vitalità inutilmente sensuale di quei veneti/italiani reclusi in gabbie sociali senza uscita.

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